Capitalisti senza capitali. Si discute alla Società del Giardino

Paola Bulbarelli

“L’incertezza dei nostri governi, del quadro giuridico ed economico, della fiscalità, fanno sì che ci sia una riluttanza da parte del capitale a investire in strumenti rischiosi come sono le azioni rispetto alle obbligazioni”

Il titolo basterebbe: “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti”. Seguono 251 pagine, scritte da Beniamino Piccone (economista e docente all’Università Carlo Cattaneo - LIUC, esperto della storia della Banca d’Italia), che dicono quel che non si sente dire in giro. Un parterre de roi commenterà questa sera (alle 18,30) alla Società del Giardino. Allo storico circolo dei gentlemen milanesi arriveranno Marco Bentivogli, Vittorio Colao, Francesco Giavazzi (autore della prefazione), Alessandro Spada, Fabio Tamburini, Giudo Roberto Vitale ma anche le ladies Elsa Fornero e Manuela Romeo Pasetti per discettare con l’autore. Ma ci sono davvero tanti capitali in giro? “Assolutamente si, basterebbe creare la strumentazione necessaria, e che in parte esiste già ma non viene attivata, per sfruttarli –spiega Guido Roberto Vitale, banchiere d’affari nonché editore del volume e che ogni due anni sforna un testo su un tema in voga – Ci sono tutti i fondi pensione degli ordini professionali, che altro non sono che l’equivalente degli altri investitori istituzionali esteri di cui ci si riempie la bocca e sono fondi pensione che invece di investire in titoli di stato, investono prevalentemente in titoli azionari stranieri che poi magari vengono a fare gli investimenti in Italia, potrebbero attrezzarsi per investire in modo diretto sul mercato italiano. Ma questo richiede che il mercato italiano sia gestito in un certo modo e non in maniera poco prevedibile come oggi”. Il nocciolo della questione: “L’incertezza dei nostri governi, del quadro giuridico ed economico, della fiscalità, fanno sì che ci sia una riluttanza da parte del capitale a investire in strumenti rischiosi come sono le azioni rispetto alle obbligazioni”. Non c’è dubbio che, al di là dell’attualità, ci siano motivazioni storiche che si ritrovano nel libro: “Se l’Italia ha perso quasi tutte le grandi imprese, una certa responsabilità va cercata nella ‘zona alta’ del capitalismo italiano, che ha profondamente deluso le aspettative del dopoguerra”. E che non ha saputo affrontare la trasformazione manageriale dell’impresa di famiglia. Può essere che una delle cause è stata proprio l’incapacità di uscire dal familismo? “Certo, anche se qualche progresso è stato fatto. La Merloni, che poi è diventata americana, ha potuto esprimere tutto il suo potenziale quando al posto degli eredi di Vittorio Merloni è subentrato il dottor Guerra. Nello statuto della Campari è previsto che non ci siano discendenti diretti con ruoli dirigenziali. Molti altri stanno cercando di managerializzarsi. E’ accaduto anche in Fiat, Marchionne è stato un’eccezione straordinaria”. Come ha scritto Mario Calabresi, si legge nel libro, Marchionne “aveva fame, quella voglia di rivalsa e di affermazione che nasce dalla fatica e dall’emigrazione”: così ha riportato in auge la Fiat”. E usando le parole di Piero Gobetti del 1919 è tornata ad essere “industria aristocratica, accentrata attraverso una formidabile selezione di spiriti e di capacità nelle mani di pochi uomini geniali”. Giavazzi, nella prefazione, parla di “modello di capitalismo assistenziale”. “Un capitalismo che è incapace di stare in piedi sulle sue sole forze. Perché accade questo? Si torna sempre al solito punto: è incerto il quadro normativo e la forma dello stato non è moderna, dovremmo avere uno stato più efficiente, più rapido nelle decisioni e soprattutto capace di dare una proiezione a medio lungo termine di come si vuole che il paese diventi. In sostanza fino a quando si è trattato di ricostruire le aziende e produrre secondo metodologie e tecniche note, si è avuto il boom economico che è rapidamente declinato con il progresso tecnologico impetuoso che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni e per il quale non erano stati fatti gli investimenti necessari in ricerca e sviluppo. E quindi le aziende italiane sono deperite, comprate dalle aziende straniere o addirittura sono state espulse dal mercato”. Che rapporto c’è tra capitali e capitalisti? “I capitalisti investono a lungo termine solo se il contesto in cui si trovano ad operare lo consente; diversamente stanno liquidi o emigrano”. Lo stato imprenditore ha ancora senso? “Il momento che stiamo vivendo è storico e pressoché imprevisto da un establishment provinciale. Uno stato moderno ha un ruolo molto importante nel promuovere la modernità del paese. L’Italia deve decidere nei prossimi mesi se vuole far parte dei dieci paesi più avanzati del mondo o se vuole un destino di tipo sudamericano. Questo è il rischio. Dobbiamo tornare a essere europei dandoci una scrollata facendo tutte le riforme che l’Unione europea ci chiede e che sono sacrosante. I problemi dell’Italia sono problemi italiani al 95%. E bisogna avere il coraggio di dirlo perché la gente è convinta che i problemi li crei l’Europa. Non è vero. Abbiamo tutto il potenziale per diventare un paese moderno e se non cogliamo l’occasione rimarremo un paese di secondo, terzo livello con una tendenza al declino”.

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