Lavorare al fab lab

Giovanni Seu

Ancora pochi, in crescita e alle prese con un po’ troppa burocrazia. Viaggio nelle officine digitali

All’albo del Comune sono registrati in dieci, forse c’è qualcuno in più ancora fuori mappa. Sono i fab lab, le “officine” che offrono servizi di fabbricazione digitale e spacemaker protagonisti della rivoluzione digitale che si sta sviluppando in città con caratteristiche molto ambrosiane: “Quando abbiamo iniziato nel 2014 – racconta Costantino Bongiorno , fondatore  di We Make in zona Gorla – sapevamo di non potere contare sul sostegno pubblico, questo a differenza di altre realtà metropolitane come ad esempio Barcellona, dove le imprese digitali ricevono un forte sostegno dal governo locale. Ci siamo rimboccati le maniche e siamo partiti, soltanto dopo abbiamo riscontrato l’attenzione del Comune e abbiamo realizzato una collaborazione con la Fondazione Cariplo da sempre molto sensibile alla promozione dell’impresa”. Anche sul fronte della formazione è stato necessario fare leva sull’intraprendenza tipicamente milanese: “Ho fondato il primo fab lab in città nel 2013 con due soci”, ricorda Massimo Temporelli, titolare di The Fab Lab, un un centro di ricerca e sviluppo e un laboratorio di fabbricazione digitale e fresco autore del libro “4 punto 0”, uno studio sulla quarta rivoluzione industriale. “Abbiamo dovuto imparare da soli, sudando sulle macchine e catturando ogni tipo di informazione su internet. Oggi le cose sono cambiate, viviamo un momento migliore, lanci un’idea o promuovi un’iniziativa e sai che può trovare un riscontro”.   

 

Industria 4.0 resta ancora marginale nel settore produttivo milanese ma appare destinata a una rapida espansione. I prodotti manufatturieri realizzati con la stampa 3d, dopo una fase di scetticismo da parte dei committenti iniziano a essere apprezzati nei settori della moda, del design, dell’industria del giocattolo. Ad essere conquistati dalla magia della manifattura digitale sono i 35-40enni, di solito forti di una robusta preparazione tecnico-scientifica che gli consente il giusto approccio alle tecnologie informatiche. Non mancano, però i 60enni, ingegneri in pensione attratti dalla nuove metodologie industriali. Con questo capitale umano si affrontano sfide al momento ancora molto in salita: “Milano è una città molto smart, ma presenta non pochi problemi – afferma Enrico Bassi che ha fondato in via Tertulliano nel 2015 il fab lab Opendote – i costi degli spazi restano troppo alti e per molti costituiscono un ostacolo per avviare un’attività. Esiste poi un deficit di conoscenza, sono poche le persone preparate e la formazione di fatto è demandata ai privati. Infine c’è una mancanza di mercato perché è difficile spiegare il valore di un oggetto su misura che ti costringe ad essere parte attiva del progetto”.

 

Risultano accentuate, quasi portate all’estremo, due tendenze degli ultimi anni dell’impresa tradizionale. Il rapporto con le banche non esiste, i 130 mila euro che servono in media per avviare un fab lab sono raccolti tra i soci evitando accuratamente qualunque sportello di credito. Stesso discorso per il rapporto con i sindacati: “Da parte loro c’è la disponibilità a capire – afferma Bongiorno – ma sono lenti, temono le innovazioni. Diciamo che la distanza più che valoriale è culturale, anche se devo dire che l’assessore al Lavoro Tajani che pure proviene dalla Cgil si sta mostrando molto pronta nei nostri confronti”. Ancora più netto Bassi: “I miei problemi sono la burocrazia, le fatture non conseguite. Non è facile per i sindacati svolgere un ruolo nel nostro contesto dove non c’è più la necessità di mediare tra due parti”.

 

Sebbene il mercato ancora non consenta bilanci in attivo, non è ben visto l’intervento pubblico con erogazione di fondi a pioggia: “L’esperienza ci dice che attira soggetti più interessati ad incassare che a sperimentare nel digitale – continua Bassi – inoltre c’è sempre il rischio che un improvviso stop delle elargizioni possa fare rallentare il settore. Meglio intervenire in modo mirato come ha fatto il Comune che mi ha rimborsato il 50 per cento delle spese effettuate per l’acquisto di asset”.

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