Roberto Maroni (foto LaPresse)

L'anticorruzione dell'anticorruzione di Maroni a che serve? Mah

Fabio Massa

Colpisce, nella relazione dell’Arac, che proprio il concetto di efficacia e semplificazione venga a cadere

Quarantasei pagine. E alla fine della relazione, tutto si riduce a un semplice concetto: ci date più soldi per controllare i controllori? L’argomento è l’Arac, acronimo di Agenzia regionale anticorruzione, insediatasi in pompa magna a metà del 2016 dopo un iter abbastanza complesso. Il motivo per cui nasce l’Arac è politicamente molto semplice: dopo gli scandali (ennesimi) che avevano riguardato ancora una volta il settore della Sanità della Regione (ma non solo, perché nell’inchiesta era finito anche Massimo Garavaglia, potente assessore al Bilancio), Roberto Maroni aveva bisogno di dare un segnale forte. D’immagine. Controllare controllare controllare. Nacque in fretta l’idea di un’agenzia ad hoc. A capo dell’Arac, Maroni vuole fortemente Francesco Dettori, cagliaritano 75enne, magistrato in pensione, che viene definito dal Corriere “uomo anticosche”. Lui promette subito: “Parlerò con i fatti”. L’intera struttura costa circa un milione di euro, e si mette al lavoro. E alla fine dell’anno mette nero su bianco i risultati ottenuti.

I fatti, appunto. A leggere la relazione integrale, come ha fatto il Foglio, viene in mente la massima di Tacito: “Corruptissima re publica plurimae leges”. Tante leggi, cosa pubblica molto corrotta. Come dire che non è aumentando il numero di leggi che si combatte la corruzione. E – vedendo la storia di Arac – neanche aumentando il numero degli enti preposti a controllare senza però aumentare l’efficacia generale. Eppure colpisce, nella relazione dell’Agenzia, che proprio il concetto di efficacia e semplificazione venga a cadere. Al momento dell’insediamento dell’Arac, la Corte dei Conti aveva già segnalato: “E’ stata istituita l’Arac. Resta al momento irrisolta la questione della relazione che intercorrerà in concreto tra la nuova Autorità e i preesistenti organi o soggetti in vario modo preposti ai controlli”. Dubbio legittimo, giustamente ripreso nella relazione del primo anno di attività dell’Agenzia. Ma la domanda è: quanti sono questi “preesistenti organi o soggetti”? Plurimi, a dirla con Tacito. Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è presidiato dalle strutture centrali di Regione e dalla presidenza. Il controllo di gestione è presidiato nella direzione centrale Programmazione finanza e controllo. Il controllo strategico ha l’Organismo indipendente di valutazione. E per la Sanità c’è l’Agenzia di controllo del sistema socio-sanitario. Poi, nel corso degli anni, sono nati il Comitato regionale dei controlli e il Comitato per la legalità e la trasparenza dei contratti pubblici. Inoltre c’è il Sireg e ci sono gli audit delle singole società. Infine ci sono i collegi sindacali e i revisori. E gli organismi di vigilanza. E la Corte dei conti, ovviamente. E il ministero dell’Economia con gli ispettorati Igf e Igop (per carità di patria risparmiamo la traduzione delle sigle), e il dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del consiglio. E infine c’è Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione dell’onnipresente e quasi onnipotente Raffaele Cantone. E proprio sulla sovrapposizione di competenze si era aperto un dibattito spigoloso, quando nel marzo scorso il presidente lombardo aveva deciso di accelerare sul progetto di un’authority in grado di “affiancare” l’Anac, con funzione di prevenzione e di contrasto della corruzione in tutte le attività delle strutture regionali, comprese le società partecipate e controllate, gli appalti pubblici.

Il Pd lombardo aveva subito ventilato l’ipotesi di impugnare la legge, poi intervenne formalmente il dottor Cantone a dire. Attraverso una delibera trasmessa a Maroni in cui si chiedeva di rivedere il progetto. Che veniva definito “apprezzabile” ma rischiava di essere un doppione, visti i compiti “identici a quelli previsti dal legislatore nazionale”. Soprattutto, Cantone sottolineava: “Visto che l’Anac è stata istituita con legge nazionale”, godeva di un maggiore rango. Ora Arac ammette: “Il progressivo infittirsi dal 2012 ad oggi delle normative nazionali sui controlli ha prodotto qualche difficoltà di recepimento negli enti di base”. E ancora: sono “in campo diverse centrali di comando non sempre attente a coordinare le rispettive azioni, a scambiare informazioni, a generare conoscenza condivisa”. Insomma, il caos. L’Arac dice che è difficile reperire i documenti (gli uffici peraltro, in via informale, fanno sapere che ci sono tanti e tali enti ai quali rispondere che per mandare documentazione a tutti, si fatica a lavorare). Sempre l’Arac, in questa moltitudine, mette nero su bianco che “è come se la complessa macchina dei controlli con tutte le sue articolazioni centrali e periferiche, si trovasse alla fine spiazzata quando si tratta di tirare le conseguenze rispetto alle anomalie o alle devianze che sono state individuate e portate alla luce”. In pratica, alla fine se pure si individua qualcosa di strano, nessuno fa niente. La conclusione? Questa: “La ridondanza delle informazioni genera comunque trasparenza. I sistemi di controllo possono essere sfidati, messi alla prova con verifiche sulla reattività”. In pratica si propone di controllare se i sistemi di controllo stanno controllando, e far girare i documenti un po’ ovunque, che alla fine va tutto bene. La chiusura è classica: “L’Arac nella sua attuale configurazione non dispone di risorse sufficienti”. 

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