Il garante dei detenuti di Milano, Pagano, spiega il “sudoko umano” del carcere

Cristina Giudici

Sistema al collasso: celle strapiene, detenuti costretti a passare ore chiusi, suicidi e diritti calpestati. Servono decentramento, differenziazione dei circuiti, sorveglianza dinamica e più attività trattamentali. Solo così il carcere potrà uscire dal suo tragico paradosso

Il Guardasigilli Nordio? In estrema sintesi incongruente perché garantista nella teoria e securitario nella prassi di governo. Chi si lamenta dell’assetto carcerario? “Tutti (per ragioni diverse) formano un coro diffuso che, privo di uno spartito comune, produce una penosa cacofonia degna del finale del film Prova d’orchestra di Fellini”. I funzionari che forzano le norme sui metri quadri di spazio vitale nelle celle per non essere di nuovo condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Burocrati della contabilità umana, “abbiamo imparato a far quadrare i conti con il metro, ma non con la coscienza”. Il piano carceri del governo? Insensato perché l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere il carcere inutile, non ampliarlo; è provato che più carceri si creano e più cresce il numero dei detenuti.

L’aspirazione del neo garante dei detenuti del Comune di Milano, Luigi Pagano, già vicecapo del Dap ed emblema del garantismo, non è cambiata: perché il sistema penitenziario ha perso mille e più occasioni per realizzare riforme  rimaste inapplicate. Infatti Pagano ha appena pubblicato un saggio che si intitola: La rivoluzione normale. Se proprio di un carcere abbiamo bisogno (edizioni San Paolo) per ribadire i suoi principi. “Ci vogliono amnistia e indulto per poter ricominciare da capo”, ci ha detto.

     
In cima alla sua agenda per tenere d’occhio le condizioni dei detenuti milanesi, compresi i minori del Beccaria, c’è il tema dei temi: la riduzione del sovraffollamento alla base di tutte patologie delle carceri e del record dei suicidi. Come? Ribaltando la situazione attuale che ha reso le galere “un servizio di welfare per chi non si può permettere di scontare la pena all’esterno: migranti irregolari, tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici. Complessivamente in tutto il paese ci sono oltre 100 mila persone in carico all’ufficio per l’esecuzione penale esterna, mentre in carcere ce ne sono oltre 8 mila definitivi che devono scontare solo 1-2 anni di condanna e non possono uscire”, spiega. Nominato nel settembre scorso, Pagano ha avviato la fase esplorativa di una situazione drammatica, dato che le cifre del sovraffollamento milanese sono più o meno queste: a San Vittore, da sempre il nodo più dolente, 1.161 detenuti di cui 92 donne e 745 stranieri (capienza 702), a Opera 1.379 ristretti di cui 432 stranieri (capienza 918 posti). Si salva o quasi la casa di reclusione di Bollate dove ci sono 1.387 persone fra cui 175 donne e 522 stranieri (capienza 1.270).  

 

Che fare in attesa dell’agognata rivoluzione che dovrebbe rendere il carcere una extrema ratio e non un tragico paradosso? “Mettere a sistema una rete di associazioni e istituzioni per riportare i diritti dei detenuti al centro dell’agenda politica; invece, tranne per alcune eccezioni come Bollate, i carcerati passano la maggior parte delle loro giornate chiusi in cella”, chiosa. “E anche potenziare la figura educativa degli agenti di rete finanziati dalla Regione Lombardia, che costituiscono un ponte per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti”.

 

Il ruolo di Pagano è consultivo perché può monitorare, segnalare anomalie, collaborare con le istituzioni. E per lui che è sempre stato dall’altra parte della barricata, nella condizione di agire e decidere, non è facile limitarsi a fare raccomandazioni. Ma parte avvantaggiato per la sua profonda conoscenza di un sistema che grazie anche ai decreti Sicurezza “ha trasferito i problemi di ordine pubblico all’interno delle celle”. Anche per questo ha sentito il bisogno di fare una sorta di libro bianco sulle mancate occasioni per riformare il sistema a causa dei numerosi sabotaggi politici bipartisan. Sottolineando le parole chiave del cambiamento di quello che è diventato un “sudoko umano” (così Pagano definisce la politica penitenziaria di incastro fra spazi e numeri di persone): decentramento, ossia più autonomia ai provveditorati regionali che interagiscono con le risorse e istituzioni sul territorio; differenziazione dei circuiti; sorveglianza dinamica che non si limiti al controllo; maggiori attività trattamentali per rispettare il dettato costituzionale sulla funzione riabilitativa. Tutte cose urgenti che si possono fare se si riduce il sovraffollamento, però. Così si torna alla casella di partenza descritta nell’ultimo paragrafo del suo libro: “Un carcere fuorilegge che non può pretendere di insegnare il rispetto delle norme a chi le ha trasgredite ed è ̀ lesivo sia per i detenuti sia per il personale”.