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L'anatomopatologo Iñárritu resuscita il cinema con Sueño Perro 

Giuseppe Fantasia

Il regista ha deciso di riprendere in mano gli oltre 300 chilomentri di pellicola di Amores Perros lasciati in sala montaggio e di riversarli su schermi sovrapposti con sei proiettori. In un’epoca dominata dalla lucidità digitale, il non finito "ha ancora tanto da dire"

C’è un’idea di cinema che non si guarda, ma si attraversa e si tocca con l’attenzione di chi maneggia qualcosa di vivo, di fragile e imperfetto. E’ questo il gesto radicale e lirico di Alejandro González Iñárritu con Sueño Perro, la nuova installazione ospitata alla Fondazione Prada di Milano fino al 26 febbraio del prossimo anno. Un’opera immersiva, costruita su materiali grezzi e tagliati dal montaggio finale di Amores Perros (2000), film culto che segnò il debutto del regista messicano e ridefinì la geografia morale del cinema latinoamericano all’inizio del millennio. “Il mio non è né un omaggio, né un revival, ma una vera e propria riesumazione”, tiene a precisare quando lo incontriamo. Sueño Perro (letteralmente “sogno cane”, ndr) è una installazione analogica, composta da sei proiettori 35 mm che riversano su schermi sovrapposti i frammenti perduti di un’opera in pellicola originale, graffiata, tagliata e sonorizzata di nuovo.

 

“Nel 2018 – spiega – ho saputo che gli oltre 300 chilometri di pellicola di Amores Perros lasciati in sala montaggio, erano stati custoditi negli archivi dell’Università nazionale autonoma del Messico. Ho deciso di riprenderli in mano e di dare nuova vita a quel mosaico di cosa è stato, di cosa avrebbe potuto essere e di cosa non è mai stato”. “Oggi sottovalutiamo il potere della pellicola, perché siamo troppo abituati al digitale e ai pixel che minimizzano, mentre invece la stessa può farci apprezzare di più la realtà che ci circonda”, aggiunge il regista, alla sua terza collaborazione chez-Prada, questa volta nelle vesti di un chirurgo della memoria visiva che riapre il corpo del suo primo film mostrandoci cosa pulsa sotto la pelle. Troverete il Podium della Fondazione trasformato in un percorso sensoriale, quasi sacro, dove la visione diventa un atto di ascolto. Si entra nel buio, avvolti da immagini senza un ordine narrativo, prive di dialoghi, dense di vuoti e intermittenze.

 

Ogni proiezione è un pezzo di mondo, un campo lungo abbandonato, una scena mai finita. Niente nostalgia, ma solo archeologia dell’immagine, perché lì dentro il cinema non racconta, ma respira. “Una resurrezione, non una celebrazione”, precisa lui a ragione, perché lo spettatore non assiste a una commemorazione estetizzante, ma viene risucchiato in un’esperienza percettiva che interroga l’idea stessa di montaggio, di scelta e di esclusione. Se Amores Perros era (ed è) un ritratto viscerale di Città del Messico – violenta, meticcia, disperata – Sueño Perro mostra ciò che il cinema tende a nascondere: la materia grezza, la durata non funzionale, il tempo morto e l’errore. In un’epoca dominata dalla lucidità digitale e dalla narrazione efficace, Iñárritu rivendica così il diritto al non finito, “che ha ancora tanto da dire”.

 

In dialogo, al piano superiore, c’è poi Mexico 2000: The Moment That Exploded, la sezione affidata a Juan Villoro che racconta il Messico all’alba del XXI secolo tra fotografie, ritagli di giornali e materiali d’archivio, la storia viva di un paese attraversato da crisi sistemiche e tensioni urbane. Dopo le vertigini sensoriali di Carne y Arena e l’introspezione febbrile di Bardo, Iñárritu si trasforma per Milano in un anatomopatologo della propria immaginazione. Sueño Perro non è né un film né una mostra, ma un atto di resistenza e di archeologia estetica insieme, un pensiero sul cinema come forma incompiuta, come spazio dell’inquietudine, come un sogno che ringhia e che talvolta – volendo citare il titolo – torna (e riesce) persino a mordere.