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Fine anno al Quirinale

“Occorre da parte di tutti realismo, solidarietà e fiducia. E quando voi chiedete alla classe politica di darvi questa fiducia, ritenete di poter dire che ciascuno di voi la ritrovi anzitutto in se stesso?”. Tre discorsi di fine anno prima di quello di Sergio Mattarella

Il discorso di Giuseppe Saragat del 1967

Palazzo del Quirinale, Roma, 31 dicembre 1967

  

Italiani, è consuetudine civile che il capo dello stato alla fine dell’anno e all’inizio dell’anno nuovo si rivolga a tutti i concittadini per inviare a ognuno di essi il suo affettuoso augurio. E io colgo questa lieta occasione per dire a voi, cari concittadini, tutto il bene che vi auguro e le ragioni per cui tale augurio mi pare confortato dalle più serie valutazioni.

 

In una situazione economica internazionale caratterizzata specie nei paesi a noi più vicini dal rallentamento del ritmo di espansione, il nostro sistema economico si è sviluppato per il secondo anno consecutivo in misura superiore a quella media prevista dal programma quinquennale.

 

Notevole è stata la ripresa degli investimenti che ha determinato la creazione di nuovi posti di lavoro con la conseguente riduzione del numero dei disoccupati e sottoccupati. Ciò ha favorito il reinserimento nel campo produttivo di molti lavoratori rientrati in patria a seguito della crisi in altri paesi.

 

Nel viaggio da me compiuto in Canada e in Australia, con soste negli Stati Uniti d’America e in alcuni paesi asiatici, ho incontrato folle di connazionali e ho sentito intorno a me un’Italia profonda, nobile, generosa: l’Italia degli emigrati, i quali – lungi dal serbare amarezza verso una patria in cui non avevano trovato possibilità di lavoro – la venerano con affetto di figli. Questo però ci impegna ad adoperarci ancora di più affinché la nostra terra, piccola di superficie, quasi priva di materie prime e densamente popolata, ma ricca di energie umane, sia presto in grado di dar lavoro a tutti i suoi figli. 

Lo sviluppo dell’economia, che ha come premessa necessaria la sostanziale stabilità dei prezzi, richiede che vengano accresciute le cosiddette infrastrutture – case popolari, ospedali, scuole, strade, attrezzature portuali e simili – che la pubblica amministrazione è chiamata a fornire alla collettività. A questo fine occorre assicurare che gli interventi della pubblica amministrazione siano indirizzati unicamente al soddisfacimento di esigenze collettive.

 

Confortante è l’esame dei nostri scambi di merci e servizi con l’estero che hanno consentito una soddisfacente stabilità monetaria, la quale è e deve restare il presupposto di un ordinato progresso economico e sociale del paese, come non soltanto insegna la dottrina, ma ammoniscono le esperienze passate e recenti compiute dal nostro e dagli altri paesi.

 

In questo dopoguerra un secondo risorgimento industriale ha ravvivato il nostro paese. La laboriosità dei suoi operai, contadini e impiegati, la responsabile iniziativa dei suoi imprenditori, l’ambiente democratico che è stato creato dalla sua classe politica hanno trasformato le sue strutture produttive e lo hanno collocato tra i maggiori produttori ed esportatori di beni manufatti.

 

Ma a differenza del primo manifestarsi del processo di industrializzazione che avvenne sotto la protezione di barriere doganali, quello di cui gli italiani di oggi sono protagonisti si è svolto all’insegna dell’apertura dei mercati e dell’integrazione europea.

 

Questa politica, che ha dato copiosi frutti, non soltanto va perseguita con tenacia per il benessere economico dei popoli, ma deve anche essere difesa con fermezza dagli attacchi che di tempo in tempo le sono portati nell’intento di ritardare il processo di integrazione europea.

 

L’ultimo di questi attacchi è stato in questi giorni vigorosamente fronteggiato a Bruxelles.

 

Il 1967 ha offerto alla Comunità europea l’occasione storica di accettare l’adesione della Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda e Norvegia, intensificando il processo di unificazione dell’Europa.

 

Lo spirito della Comunità economica europea è, sul piano economico, l’apertura dei mercati e, su quello politico, l’europeismo. A Bruxelles ci siamo scontrati con qualcosa di diametralmente opposto: il nazionalismo.

 

Lo sforzo del nostro paese per avviare immediati negoziati con la Gran Bretagna ha visto convergere sulle nostre posizioni quattro altri paesi della Comunità europea, ma non ha potuto condurre all’unanimità per una decisione positiva. E’ stata perduta una grande occasione e non sarà facile porre rimedio all’errore compiuto. Fortunatamente la Gran Bretagna ha già confermato il suo proposito di cercare con tenacia di unirsi con quanti sinceramente continueranno a ricercare l’unità dell’Europa.

 

Noi siamo consapevoli che solo con l’apporto della Gran Bretagna l’Europa potrà affermarsi come interlocutore valido tra i due colossi delle potenze mondiali: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Solo con questo apporto l’Europa, arricchita dall’alto livello scientifico e tecnologico della Gran Bretagna e soprattutto dal suo volume di libertà, di democrazia e di socialità, potrà affermarsi come fattore mondiale di progresso e di pace. Di pace soprattutto di cui il mondo e l’Italia hanno tanto bisogno. […]

 

Lo scorso anno, in questa stessa circostanza, ricordando la celebrazione del ventesimo anniversario della proclamazione della Repubblica – sorta dalle lotte di liberazione in comunione di sacrifici con gli alleati – affermavo che è ad essa e alle sue libere istituzioni che l’Italia deve la sua ascesa fra le grandi nazioni del mondo.

 

Soltanto con la libertà e la democrazia l’Italia potrà continuare a progredire circondata dal crescente rispetto delle altre nazioni.

 

La democrazia è un rapporto fiduciario dei cittadini tra di loro e verso lo stato. Questo rapporto fiduciario si alimenta di solidarietà umana, soprattutto verso i più bisognosi, di rispetto delle leggi al cui vertice sta la Costituzione repubblicana, in una parola, di civismo. Certo esistono ancora, come in tutte le cose umane, lacune da colmare, errori da correggere, responsabilità da accertare e, se necessario, punire. Ma ciò che conta è il progressivo e irreversibile consolidarsi delle nostre libere istituzioni.

 

La Repubblica Italiana, fondata sul lavoro, è una realtà che si afferma con forza sempre crescente, tutelata dalla cosciente determinazione di tutto il popolo, dalla fermezza democratica di coloro a cui il popolo ha confidato il governo della cosa pubblica e dalla lealtà democratica degli organi dello stato.

 

Sicuro che tutto questo trovi nel vostro animo pieno consenso e rispondenza di sentimenti, mi è caro rinnovarvi i miei auguri di bene, aggiungendovi quel voto che tutti li comprende e che si esprime nell’augurio di ogni bene alla nostra Italia.

Giuseppe Saragat

(presidente della Repubblica, 1964-1970)

Il discorso di Giovanni Leone del 1977

Palazzo del Quirinale, Roma, 31 dicembre 1977

 

Nel rievocare alcuni giorni fa il trentennale della Costituzione nello storico Palazzo Giustiniani dove essa fu promulgata, ho detto – e lo ripeto questa sera a voi diretti destinatari di quel messaggio – che la nostra Carta costituzionale non è qualcosa di astratto, ma – resa più viva da trent’anni di lotte, di sacrifici e di lavoro – definisce una società libera e civile, che è quella in cui siamo e vogliamo rimanere; una società più ricca di solidarietà, che è quella in cui vogliamo vivere.

 

Eppure dobbiamo riconoscere e valutare con molto realismo il malessere profondo che si avverte nel paese. Pesano su di noi infatti molti problemi non risolti. E non mi riferisco solo alla crisi della nostra economia, che presenta gravi fenomeni di disoccupazione e un Mezzogiorno drammaticamente bisognoso di sviluppo. Mi riferisco a un elemento più preoccupante, che si incunea nella coscienza popolare e rende tutto più difficile: la sensazione o la consapevolezza che non sempre a ogni diritto riconosciuto ha corrisposto e corrisponde la possibilità di un suo effettivo esercizio; di qui pesanti delusioni e quindi, di riflesso, un affievolimento generale del senso del dovere.

 

Il diritto alla scuola, ad esempio. Davanti a questa grande conquista, voluta da tutti, quanto di non graduata previsione vi è stato, sia pure per una esaltante volontà di rinnovamento, che ha determinato non solo carenze nelle strutture, ma soprattutto impossibilità di predisporre quel collegamento tra scuola e mondo produttivo, tra insegnamento e sbocchi professionali che oggi rappresenta uno dei più drammatici nodi da sciogliere! La disoccupazione dei giovani, con la coscienza di un titolo acquisito, crea drammi familiari e pesanti frustrazioni.

 

E ancora: quando è stato sancito per tutti i cittadini il diritto all’assistenza sanitaria, non si è riusciti a predisporre, nell’ansia di allargare questo diritto alle varie categorie, l’adeguato e necessario complesso di presidi sanitari o ospedalieri, determinando le disfunzioni e i disagi che troppo spesso dobbiamo riscontrare.

 

Dunque, squilibri ve ne sono, in questi, come in altri settori. Ed è giusto chiedere che i diritti siano resi operanti con l’impegno e la decisione delle forze politiche. Ma occorre da parte di tutti realismo, solidarietà e fiducia. E quando voi chiedete alla classe politica, di darvi questa fiducia, ritenete di poter dire che ciascuno di voi la ritrovi innanzi tutto in se stesso? Rispetto ai problemi insoluti è pensabile porsi in una posizione di fatalistica attesa? e non verificare piuttosto se fino in fondo si compie il proprio dovere?

 

E qui il discorso si deve fare ancora più incisivo e senza equivoci. Spetterà proprio a quelli di noi che hanno beneficiato in qualche misura del progresso degli anni trascorsi – quel progresso che la grave recessione ha interrotto specie dopo la drammatica crisi energetica – sopportare il peso dello sforzo necessario alla ripresa. Saranno ancora tempi di rinunzie e di sacrifici, indispensabili perché i disoccupati, i giovani, i poveri, gli emarginati possano trovare prospettive ragionevoli. E perché queste prospettive non appaiono illusorie, cominciamo intanto col non disperdere quello che abbiamo finora conquistato. Molti di voi, anche i più giovani, sanno che la società di oggi è certamente più giusta e progredita di quella che ci siamo lasciati alle spalle anche solo venti o dieci anni fa.

 

Rispetto a questa realtà, non ci dovrebbe essere spazio per quella sorta di compiaciuta indicazione del peggio che non aiuta nessuno e che costituisce solo un modo assurdo di deformare persino le cose buone che riusciamo a fare svilendo gli elementi di progresso.

 

Perciò fiducia in se stessi, spirito di solidarietà, disponibilità ai sacrifici, orgoglio di partecipare alla ripresa del paese. E’ su questa base che alla classe politica si deve chiedere qualcosa di ben preciso: un programma che nasca dalla forza del consenso e sia sorretto da un’autentica animazione democratica, diretto a predisporre un quadro organico per affrontare i nodi della crisi.

 

E in questa prospettiva desidero sottolineare alcuni punti che considero essenziali. E’ necessario che lo Stato abbia quadri nuovi e ben preparati in grado di assicurare una maggiore efficienza amministrativa; che vi sia un sistema fiscale che nella sua progressività sia più equo e non si appunti prevalentemente, come è accaduto specie in passato, sui redditi meno occultabili; che vi siano trattamenti retributivi che, a parità di lavoro e specializzazione, non presentino assurde divaricazioni (e qui l’azione dei sindacati può rivelarsi essenziale); che si affermi l’esigenza di valorizzare la professionalità e di lottare contro quelle forme di livellamento che spingono al disimpegno; che si crei, attraverso un imponente sforzo di previsioni e di riorganizzazione, un collegamento sempre più funzionale tra la scuola e il mondo produttivo; e infine che, vi sia una giustizia pronta, in cui alle esigenze di garanzia della società facciano riscontro degli strumenti legislativi e una nuova forma di efficiente organizzazione giudiziaria.

 

Le forze sociali sembrano optare al presente per posizioni di contrasto o quanto meno di dura dialettica, ma appaiono consapevoli delle difficoltà e desiderose di contribuire ad affrontarle. I partiti che hanno stipulato un’intesa di programma devono esprimere una solidale volontà di convergenza riformatrice. Come ho già avuto occasione di dire ogni forza politica deve conservare il suo patrimonio ideale, ma le intese raggiunte o da raggiungere su specifiche proposte politiche dovranno sempre avvenire sul terreno della fedeltà ai valori della Costituzione.

 

Quindi idee e proposte concrete; decisione e coraggio nel formularle e nell’attuarle; partecipazione più attiva dei cittadini alla determinazione del programma che deve garantire la ripresa.

 

Né possiamo pensare a forme elusive rispetto ai programmi nazionali.

 

Il 1978 potrebbe essere l’anno dell’Europa con un Parlamento eletto a suffragio universale. Ma non è realistico credere che i problemi della nostra società nazionale si possano risolvere in tutto o in parte affogandoli in quelli più generali di una società europea. All’opposto, occorre rendersi conto e affermare con decisione che il vero problema è quello di costruire la nostra società in funzione dell’Europa. Tutto ciò comunque va visto non in forma egoistica, ma nella più ampia prospettiva di partecipazione a quel processo di civiltà e di pace che è in atto e che, anche per la nostra posizione nel Mediterraneo, dobbiamo sostenere col massimo impegno.

 

Questo è il quadro della situazione. Nessuno di noi si illude che la condizione presente possa trasformarsi d’incanto. Siamo anzi indotti a ritenere che il prossimo sarà certamente anch’esso un anno difficile, non meno difficile di quello che oggi abbiamo concluso; ma, perché non sia privo di speranze, dovrà essere un anno ancor più impegnativo, se si vuole avviare quella ripresa che realisticamente riteniamo possibile.

 

Ripresa economica, dunque, che tuttavia sarebbe di per sé inidonea o in gran parte vanificata se non fosse accompagnata da un recupero della sicurezza dei cittadini.

 

Il clima di paura e di violenza non può rimanere alla lunga l’immagine di un paese civile. Bisogna riconoscere che vi sono stati in questi ultimi tempi un più accentuato impegno, una grande sensibilità a anche l’adozione di strumenti nuovi, posti in essere per la lotta alla violenza, al terrorismo, al crimine, sulla base delle direttive del governo, sostenuto dal Parlamento e dalle forze politiche e sociali anche attraverso grandi mobilitazioni democratiche. Troppo spesso però dimentichiamo che il crimine si combatte soprattutto se viene isolato dalla coscienza civile, e mai coperto o teoricamente giustificato.

 

Guardiamoci intorno. Quanti sono i coraggiosi, quelli che fanno la loro parte fino in fondo, quanti sono i magistrati, gli uomini dei servizi dell’ordine, i militari, i lavoratori nei vari settori, i dirigenti e via via fino ai vertici dello Stato, quanti sono quelli che ogni giorno, spesso in silenzio e con sacrificio, assolvono tutto intero il dovere che loro compete!

 

Ebbene noi dobbiamo essere con questi uomini; noi dobbiamo essere questi uomini!

 

Ciascuno nel ruolo che svolge nella società deve accogliere questo invito ad adempiere fino in fondo il proprio dovere; e soprattutto coloro che sono investiti di funzioni pubbliche; così come io stesso cerco di compierlo, in adempimento di una responsabilità assunta sempre al servizio degli interessi generali, con umiltà e con rispetto profondo delle esigenze del paese.

 

Se questo appello alla responsabilità non divenisse operante e non si tramutasse nell’impegno di tutti, il rischio per il sistema democratico sarebbe estremo.

 

A quelle anime fragili che pensassero di poter barattare la propria libertà, ritenuta insicura, con una futura condizione di sicurezza, ritenuta possibile, noi diciamo che dove la libertà, dove si sono consolidati valori di giustizia e di democrazia che nessuno può distruggere, lì vi saranno pure incertezze e momenti oscuri, ma lì c’è critica, c’è contrasto, lì c’è la vita.

 

Su queste basi, negli anni che ci attendono dobbiamo riproporre, anche di fronte al mondo, la vera immagine dell’Italia; l’immagine di un popolo che ha una sua integra tradizione di civiltà, che ha un forte impianto morale, che ha milioni di uomini e di donne che nei momenti più difficili della storia hanno saputo esprimere una grande forza e un eccezionale coraggio; l’immagine di un paese tra i più liberi e democratici del mondo.

 

Non vi ho detto parole serene, come avrei voluto; anzi in esse avrete trovato motivi di preoccupazione, ma anche quelle prospettive di speranza sulle quali orientare il nostro comune impegno per il nuovo anno.

 

Giovanni Leone

(presidente della Repubblica, 1971-1978)

Il messaggio di Francesco Cossiga del 1989

Palazzo del Quirinale, Roma, 31 dicembre 1989

 

Il vento della liberà ha spirato, impetuoso e vivificante, nell’anno che volge al termine, segnando in molte nazioni, per iniziativa dei popoli, il tramonto di sistemi politici illiberali e tirannici e la vigorosa ripresa del moto democratico e del civile progresso, presagi di pace, di speranza, di rinnovamento, di liberazione, dominano questa fine d’anno e ci inducono a volgere lo sguardo in avanti, più che a tracciare consuntivi del passato.

 

Certo, si conclude, nel segno dell’ottimismo, un decennio importante, che si era aperto invece sotto oscuri auspici.

 

E l’augurio che oggi vi rivolgo poggia sulla serena consapevolezza delle cose che sono state affrontate, ed in parte avviate a soluzione.

 

Ma tutto ciò ci incoraggia a guardare al futuro, quasi fossimo giunti ad un nuovo punto di partenza nel cammino che può condurci verso più vasti orizzonti di democrazia e di progresso.

 

E’ infatti nel segno delle libertà dell’uomo, nel segno di strutture politiche autenticamente democratiche che è sbocciata questa nuova stagione della libertà. Per l’immaginazione collettiva, la fine della confrontazione, l’archiviazione della Guerra fredda, non sono soltanto la conclusione di un’era paurosa, quasi il risveglio da un incubo, quanto piuttosto uno straordinario passaggio verso il nuovo.

 

E’ come se quella porta che sembrava ostinatamente chiusa al vento della libertà e del rinnovamento, alla speranza della pace, fosse stata prepotentemente aperta, consentendo all’uomo di guardare verso nuove, esaltanti e pacifiche mete.

 

I singolari avvenimenti di cui tutti noi siamo stati e siamo testimoni: il risveglio dell’est europeo, il coraggioso cammino verso la democrazia politica ed il pluralismo intrapreso dai popoli di quella parte gloriosa dell’Europa hanno, del resto, profonde e salde radici proprio nel loro patrimonio umanistico culturale e religioso, nel mondo dei valori dell’immortale spirito umano che richiama alla mente il solo pronunziare i nomi di Lipsia e Dresda, Praga, Varsavia, Budapest, Mosca e Kiev, Riga, Sofia o Bucarest; il solo ricordare il grande contributo dato alla storia dell’uomo dalla cultura e dalle tradizioni nazionali dei popoli dell’Europa orientale, dal polacco al russo, dall’ucraino al magiaro, per citare solo alcuni di essi.

 

Questo mondo dei valori civili, culturali e religiosi, questo mondo della cultura popolare e tradizionale non era stato mai cancellato, contro i nostri timori, nell’animo di milioni e milioni di uomini, a dispetto dei tentativi di regimi tirannici, che tradirono anche moti sinceri di eguaglianza, liberazione e libertà, moti che rimangono parte comunque importante della nostra storia comune. 

 

E la maturità e l’impegno dei popoli, il realismo, il coraggio politico e la lungimiranza, bisogna riconoscerlo, di alcuni dirigenti, hanno condotto questi valori a riemergere ed a riaffermarsi al di sopra di anguste considerazioni ideologiche e di mera opportunità politica: e tutto questo con un impeto che ricorda quello del 1848. Questo vasto movimento ha così pervaso l’Europa ed ha condotto all’abbattimento della cortina che divideva, e non solo materialmente, in due il nostro continente, imponendo ai nostri popoli una innaturale ed antistorica separazione.

 

E’ con viva emozione che abbiamo visto cadere il Muro di Berlino e non già per l’assalto di una folla esasperata dall’ingiustizia e dall’arbitrio, come accadde alla Bastiglia duecento anni orsono, bensì per l’incombere pacifico, e quindi anche più perentorio, di centinaia di migliaia di cittadini che liberamente si sono radunati, liberati dalla paura e dall’angoscia e coraggiosamente fiduciosi nell’avvento di un’era nuova, fermamente determinati a riappropriarsi del loro destino in termini di libertà.

 

Questa nuova stagione della libertà e della pacifica convivenza costituisce certo una grande sfida per i popoli dell’est europeo, impegnati duramente nella edificazione di stati da riformare e da rifondare e di società da rinnovare; ma costituisce anche, è bene ricordarlo, una grande sfida per noi popoli dell’occidente. Certo, in quanto accade, e giustamente, la storia riconoscerà parte importante alla serena fermezza ed alla convinta determinazione con la quale noi, nazioni dell’occidente, nei nostri ordinamenti interni e con le nostre libere alleanze, abbiamo serbato, radicato e protetto, non solo per noi ma per tutti, insieme alla nostra sicurezza, i valori della libertà e del pacifico progresso. Ma ora queste nazioni, le nazioni dell’occidente, devono dimostrare che gli ideali di libertà e di democrazia non possono essere assunti a difesa di una concezione nazionale ed internazionale statica, a protezione di un benessere morale e materiale, magari anche vasto, ma comunque circoscritto e conchiuso.

 

Certo, caduti i muri, resteranno da colmare i fossati. E fra questi, il più immediato ed il più preoccupante è senz’altro quello economico. 

 

Nell’avviarci verso la fine di questo millennio, si prospetta per tutti un compito immane, in particolare per i paesi delle comunità europee che si trovano impegnati in prima linea. Il disegno dei padri fondatori dell’Europa comunitaria, di De Gasperi, di Schuman, di Spaak e di Adenauer, va indubbiamente sollecitato, temprato, ampliato, forse rivisto.

 

Anche sul piano della pace e del disarmo, le grandi trasformazioni in atto hanno improvvisamente aperto prospettive che, solo qualche mese fa, potevano sembrare utopistiche. Per la prima volta in quarant’anni, l’umanità può sperare in un mondo in cui la sicurezza di ciascuno non sia più basata sull’equilibrio del terrore e sull’incubo dell’annientamento nucleare.

 

L’Italia, tutto il popolo, ciascuno di noi ha vissuto e partecipato con il cuore e con l’intelletto agli avvenimenti sconvolgenti dell’est europeo: dall’avvio pacifico che le riforme avevano avuto in molti paesi, a cominciare dalla polonia e dall’unione sovietica, sino alla tragedia immane del popolo romeno, che ha dovuto iniziare il suo nuovo cammino verso la democrazia con una rivoluzione che è costata la perdita di tante vite e un così alto sacrificio di umano dolore.

 

Noi, noi Italia, siamo una nazione di grande ed antica civiltà, che ha saputo darsi in questi anni strutture di libertà e vivere una vita democratica ricca ed aperta, che ha sviluppato una società moderna con una economia avanzata. Per questo, noi siamo chiamati a svolgere un ruolo importante nella storia dell’Europa; per questo, ma anche a motivo della nostra posizione all’incontro fra le culture latina, slava e germanica e le civiltà europea, araba e africana.

 

E in Europa, ciò potremo e dovremo fare, nell’anno che inizia, nell’esercizio del nostro turno di presidenza delle comunità europee.

 

Nel mondo, poi, dovremo proseguire un’azione che è ispirata all’imperativo morale di collaborare con tutti quei popoli la cui vicenda è sempre stata intimamente legata alla nostra nel segno della libertà, consapevoli che sono ormai i valori su cui poggia il nostro modello, giustamente, a prevalere, quei valori di pacifica convivenza e di democrazia che, nello spirito di Helsinki e per la comunanza di origini e di civiltà, tendono ad estendere ed a rendere corresponsabili con noi nel concetto stesso di Europa, gli Stati Uniti e il Canada.

 

Dobbiamo naturalmente continuare ad agire, noi popoli dell’occidente, nel pieno rispetto delle scelte compiute dagli altri popoli, in ordine sia al loro sistema politico interno, sia alle alleanze alle quali hanno deciso di appartenere. Per parte nostra, dobbiamo agire in piena responsabilità, e con piena consapevolezza del nuovo, nell’Alleanza atlantica, il cui valore politico verrà, io credo, ad assumere sempre più rilevanza ed attualità rispetto a quello puramente militare.

 

Dobbiamo anche continuare a fornire un sostegno morale e materiale a coloro che, oggi, si confrontano con decisioni epocali. Per questo al presidente Bush e al presidente Gorbaciov, abbiamo avuto modo di esprimere il nostro caloroso apprezzamento ed il sostegno non solo del governo ma, ne sono certo, di tutte le forze politiche e dell’intero popolo italiano.

 

Ma il mondo non è solo l’Europa, non è solo l’Europa dell’ovest e dell’est, non è neanche solo tutta l’Europa e le Americhe. La lotta per la libertà e la pace è inscindibile infatti dalla lotta per la liberazione e per il progresso civile, culturale ed economico nel Terzo e nel Quarto mondo: per la liberazione dalla emarginazione, dalla fame, dalle tirannie locali, dal razzismo di milioni di uomini. Per questo, rammentiamo e facciamo tesoro dei solenni ammonimenti al destino comune dell’uomo e del mondo e ai doveri di solidarietà che ne derivano contenuti negli appelli che il Papa ha rivolto al mondo nell’esercizio del suo universale magistero spirituale.

 

Sono tanti, e sono gravi, i mali che insidiano la qualità della vita, infatti, nel mondo intero, nelle civiltà più misere come in quelle più prospere.

 

Mi riferisco all’indebitamento che ipoteca le prospettive di sviluppo futuro in tanti continenti ed al quale l’Italia volge la sua speciale attenzione, offrendo all’opera delle nazioni unite un significativo contributo diretto.

 

Mi riferisco alla disoccupazione, specie a quella giovanile, che provoca, fra l’altro, un inurbamento disordinato ed emigrazioni clandestine. Si viene così a creare una dimensione di solitudine per tanti, una dimensione che ha sempre più il sapore amaro dell’emarginazione e che richiede quindi un crescente e reale sforzo di solidarietà da parte di tutti noi. In questo contesto, penso in particolare, e con grande angoscia, alla drammatica spirale del commercio illegale e del consumo della droga, vero cancro che minaccia la nostra società a livello nazionale e internazionale.

 

Mi riferisco al deterioramento dell’ambiente: l’egoismo dei paesi ricchi continua ad alimentare lo sperpero delle risorse mondiali e a gravare seriamente sull’inquinamento complessivo; mentre i paesi meno prosperi hanno difficoltà a reperire le ingenti risorse necessarie per orientare lo sviluppo in una direzione consona alla nuova coscienza ecologica.

 

Su tutti questi temi può oggi coagularsi uno sforzo di collaborazione collettivo, io credo, che riuscirà e deve riuscire a trascendere le superate distinzioni fra i vecchi schieramenti ideologici.

 

Per poter concorrere a raggiungere questi traguardi per poter con forza e con autentica autorità, morale e politica, lavorare nella comunità internazionale: dalle comunità europee all’Alleanza atlantica, dal Consiglio d’Europa alla cooperazione mediterranea ed all’incontro fra l’Europa dell’ovest e l’Europa dell’est, è necessario che noi italiani ci dedichiamo, nel nostro paese, con crescente impegno, a rafforzare la nostra società, per renderla più moderna, più libera, più giusta, più pronta ad affrontare i doveri all’interno e nella comunità internazionale.

 

Per noi, cogliere e sviluppare il significato della nuova stagione della libertà, perché anche per noi ci deve essere una nuova stagione della libertà, significa impegnarci con totale coerenza a rendere più moderne ed adeguate le strutture del nostro stato e della nostra società culturale, civile ed economica, affinché esse siano veramente a misura dell’uomo. E significa far vincere il diritto ovunque, quel diritto che è garanzia di libertà, contro la violenza della malasocietà del crimine e della prepotenza.

 

Anche noi, anche noi italiani, non dimentichiamolo, abbiamo bisogno del vento della libertà: perché di libertà ha sempre bisogno un popolo libero.

 

Che il 1990 sia per l’Europa un anno in cui le speranze di liberazione e di pace si consolidino con la buona volontà di tutti i popoli, di tutti i governi, di tutti i cittadini.

 

Che il 1990 sia per l’Italia, per tutti i suoi cittadini, un anno di progresso nell’edificazione di una società democratica, avanzata, più giusta, nel segno della libertà, sotto l’imperio del diritto, così che noi, il popolo italiano, possiamo contribuire, con l’aiuto di Dio, alla causa della libertà e della pace nell’Europa e nel mondo.

 

Buon anno a tutti!

 

Francesco Cossiga

(presidente della Repubblica, 1985-1992)

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