Sandro Botticelli, “Madonna della Melagrana”, 1487 (Firenze, Galleria degli Uffizi)

Vernice per Botticelli agli Uffizi

Guardate la bellezza di Venere, ingenua e perfetta

Marco Bona Castellotti
Più stretto il gioco di relazioni tra i quadri esposti: è il nuovo allestimento delle sale dedicate al primo Rinascimento fiorentino. Dove spiccano le Madonne di Sandro e le sue due maggiori opere profane. La prospettiva ha abdicato alla funzione di definire lo spazio, la profondità diventa trasparente lontananza. In un’atmosfera di sovrana malinconia.

Le sale degli Uffizi dedicate al primo Rinascimento fiorentino, nuovamente allestite e recentemente inaugurate, occupano gli ambienti ove sorgeva il teatro del Buontalenti. Ciascuna opera è esposta secondo criteri filologici e “in relazione diretta di stile, o di cronologia o di soggetto con quelle che si trovano nelle vicinanze” (Schmidt), fatto che stimola una più attenta lettura delle sottigliezze e delle perfezioni che caratterizzano lo stile di Alessandro (Sandro) Filipepi detto Botticelli, pittore di cui la Galleria degli Uffizi detiene il nucleo più insigne al mondo. Senza la percezione di certi dettagli, sovente vettori di simboli, e del disegno che profila le figure, parte dell’eccezionalità di Botticelli rischia di sfuggire agli occhi del pubblico. La collocazione isolata, anzi distillata dei quadri e l’asettica lindura degli intonaci sono concepite per ricreare l’atmosfera rarefatta e neoplatonica del mondo botticelliano, oltre che per sfoltire il tappo dei visitatori che si accalcano davanti alla “Primavera” e alla “Nascita di Venere”.

 

Personalmente mi ero abituato alla mescolanza tipica del vecchio allestimento, corrispondente a un gusto vagamente tardo romantico, che contribuiva a fare emergere il calore sentimentale dei migliori dipinti di Sandro, calore insidiato – per assurdo – dall’estrema perfezione formale. Ritengo giusta premura segnalare gli influssi esercitati sulla pittura fiorentina del secondo Quattrocento dai fiamminghi, e soprattutto dal “Trittico Portinari” di Hugo van der Goes, il cui arrivo a Firenze nel 1483 fu un evento dirompente, ma il contributo della cultura fiamminga pesa più sul Ghirlandaio, e forse sullo stesso Leonardo, che sul Botticelli, strenuo conservatore e difensore ostinato della propria fiorentinità. Nella palese dipendenza dal suo maestro Filippo Lippi e con lo sguardo volto a Piero e Antonio del Pollaiolo, meno al Verrocchio di cui non condivide i rilievi plastici, Botticelli appare quasi noncurante di quanto di innovativo stava maturando a Firenze e della svolta in senso rinascimentale degli anni Novanta, decennio che lo vedeva ancora sugli altari, e, a partire dal 1495 circa, immerso in una crisi feconda di capolavori. Il declino inizierà dopo il 1500 e con l’approssimarsi della morte, avvenuta nel 1510.

 

Era nato nel 1445. Malaticcio dall’infanzia, “inquieto sempre” e dotato di un “cervello stravagante” (Vasari), fu condotto dal padre Mariano, di professione “galigaio”, vale a dire conciatore di pelli, nella bottega di fra’ Filippo, pittore rinomato nonché carmelitano, il cui figlio Filippino, nato spurio da un’avventura amorosa che indusse il padre frate a tornare al secolo, sarebbe un dì andato a imparare il mestiere in quella che Botticelli aveva istruito in casa. Vasari afferma che Sandro fu “persona molto piacevole”, solita “fare molte burle ai suoi discepoli”. Ne racconta alcune in modo prolisso e senza il consueto mordente, il che denuncia scarsa simpatia nei confronti del Botticelli, che, nell’età della maniera, era ormai considerato il rappresentante di una cultura pittorica tramontata.

 

Vasari tuttavia non lesina qualche elogio, costretto dalle evidenze, ma, narrando della sterile vecchiaia del pittore, tramanda che era piombato in uno stato di indigenza tale che, se non fossero intervenuti gli amici ad aiutarlo, “si sarebbe quasi morto di fame”. Poi insinua che s’era ridotto “disutile” e che era tanto malconcio da camminare “con due mazze perché non si reggeva ritto”; infine “si morì essendo infermo e decrepito”. Benché forse troppo risentito, il racconto dello stato di abbandono del Botticelli doveva rispondere al vero. Del periodo estremo della sua vita si sa pochissimo. E’ probabile che l’uscita di scena e lo sconforto fossero da addebitarsi a un insieme di fattori: i rivolgimenti politici, la scomparsa dei Medici che lo avevano sostenuto in passato, l’ansia esistenziale accresciuta dagli accadimenti che portarono al rogo Girolamo Savonarola cui era legato.

 

In realtà Botticelli non aveva mai militato nel gruppo dei seguaci di stretta osservanza piagnona, ciò non toglie che i suoi turbamenti fossero di natura essenzialmente religiosa, come dimostrano le opere di soggetto sacro intorno al 1495, vedi le due versioni della “Pietà” di Monaco e del museo Poldi Pezzoli di Milano, il “Cristo crocifisso” di Prato, che la critica oggi tende ad attribuire interamente alla mano del maestro, e la “Natività mistica” di Londra, quadro singolarissimo e quanto mai arcaico nella simmetria ripetuta e pressoché liturgica delle coreografie degli angeli, che abbracciano da esseri sovrannaturali quali sono, esseri terreni, e manifestano in volto espressioni seriose, apparentemente dissonanti dall’avvenimento della nascita di Cristo, intesa come un fatto drammatico e non gaudioso.

 

Protagonisti di questa “Natività” sono gli angeli, non i componenti della Sacra famiglia. Nel margine superiore scorre una scritta in greco, lacunosa e variamente interpretata, dove compaiono il nome dell’autore “io Alessandro” e la data 1500, oltre a parole enigmatiche, “nel mezzo del tempo dopo il tempo”, che riprendono un passo dell’“Apocalisse” di san Giovanni “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo”, e lamentano la liberazione “per tre anni e mezzo dal diavolo”, che poi verrà messo in fuga. In basso si vedono alcuni diavoli scappare e nascondersi tra le rocce. In questo quadro, simile a un santino erudito, l’esprit religioso di Botticelli si tinge di ansie millenaristiche, ed è assai più agitato di quello che traspare dai dipinti del sublime periodo della maturità: la “Madonna del Magnificat”, eccelsa nella sua armonia accentuata dalla forma del tondo, dalla profusione dell’oro e dallo splendore dei colori; quella della “Melagrana”, citata come un “tondo Virginis Mariae” da Vasari nel palazzo dei Signori, dove la luce spiove da una sorta di padiglione dorato; la pala con la “Madonna di san Barnaba”, con l’iscrizione sulla base del trono “Vergine madre figlia del tuo figlio”, che è un chiaro omaggio tributato dal Botticelli a Dante, precedente le illustrazioni della “Divina Commedia” che Sandro compirà più tardi; l“Incoronazione della Vergine” già nella chiesa di San Marco.

 

Non è facile penetrare nella psicologia della Vergine e di Cristo bambino della “Madonna del Magnificat”, ammesso che si possa parlare di psicologia e non di un assoluto connubio di divino e di umano che si consacra entro la sfera di cristallo della bellezza. Al quadro il pittore doveva tenere sommamente. Lo testimoniano le innumerevoli correzioni e i pentimenti che denotano la lunga e assidua elaborazione. Gesù poggia le dita su una pagina aperta dove si legge l’incipit dell’inno del “Magnificat”; la madre contempla il figlio con atteggiamento riflessivo e quasi dolente; i giovani, angeli e no, sono scelti fra i più avvenenti in circolazione, così come gli adolescenti che attorniano la “Madonna della melagrana”, in cui il pittore, per la stupefacente figura di Maria, potrebbe aver reclutato la stessa modella della “Nascita di Venere”. Questa serie di opere, capaci di far trasalire se “frugate” a dovere, è radunata nelle sale degli Uffizi. Attestano il preponderante valore della bellezza in Botticelli, che non si limita ai temi religiosi e torna, in termini di grazia, nelle due maggiori opere profane: la “Nascita di Venere” e la “Primavera”.

 


"Madonna del Magnificat"


 

Eseguì la “Nascita di Venere” intorno al 1485 per una “camera del Granduca terrena” nella villa di Castello. La tecnica è una tempera magra su tela, pressoché priva di spessore, sì che l’effetto somiglia a quello prodotto da un affresco. I colori sono di una limpida leggerezza, che non contraddice la vivacità degli accordi. Il fluire continuo delle linee crea la musicale concertazione di ogni elemento figurativo, che si immerge in un’atmosfera di sovrana malinconia, giunta al diapason nello sguardo tenero e pudico di Venere. Vasari descrive la tela come “una Venere che nasce e quelle aure, quei venti che la fanno venire in terra con gli amori”. A partire dalle parole dello storico aretino, il titolo di “Nascita di Venere” si è perpetuato nei secoli e tuttora è in vigore, nonostante la critica propenda a identificare il soggetto non nella nascita della dea dalle acque, bensì nel suo approdare a riva su una grande conchiglia spinta dal soffio di Zefiro e della ninfa Clori, annodati fra loro come aquiloni intrecciati. Venere si copre con una mano il seno, e con una ciocca di capelli il pube. L’aria in cui la visione prende corpo evoca i versi di Poliziano delle “Stanze per la Giostra di Giuliano di Piero de’ Medici”, nei quali si canta del “tempestoso Egeo, l’errar per l’onde in bianca schiuma, gli atti vaghi e lieti, una donzella non con uman volto dai zefiri lascivi spinta a proda, gir sovra un nicchio”, “sì che giurar potresti che dall’onde uscissi, la dea premendo colla destra il crino, coll’altra il dolce pome ricoprissi”. Giunta Venere alla riva, l’accoglie la Primavera, abbigliata, da par suo, di un manto trapunto di fiori, tanto aerea da sembrare che lambisca la terra senza toccarla. Il profluvio degli elementi vegetali non va inteso unicamente in chiave ornamentale. I fiori sono simboli d’amore; le canne palustri a sinistra, che ostentano “frutti corposi”, fanno riferimento — secondo qualcuno — all’organo virile di “Urano caduto in mare” che, sulla scia di un mito (ovviamente pagano) provocò l’addensamento della schiuma da cui nacque Venere.

 


Botticelli, “Nascita di Venere”, 1485 circa (conservata agli Uffizi come la “Primavera”, che Botticelli dipinse qualche anno prima, intorno al 1482). La tecnica è una tempera magra su tela, pressoché priva di spessore: l’effetto somiglia a quello prodotto da un affresco


 

E’ interessante notare come la prospettiva abbia per così dire abdicato alla funzione di definire razionalmente lo spazio. La profondità diviene trasparente lontananza; le figure si allineano sul medesimo piano. Zefiro e Clori non spingono il nicchio da tergo come sarebbe logico, ma se ne stanno a lato e ci si domanda in forza di cosa quel nicchio scivoli sull’acqua. Le increspature della superficie marina sono talmente regolari da sembrare disegnate da un bambino. Ma è proprio l’ingenuità nella perfezione, o — se si vuole — la perfetta ingenuità, a incantare, e l’osservatore viene rapito e gli vien da naufragare in tanta bellezza.

 

La poetica evocazione dell’antichità classica è il lievito della produzione letteraria e figurativa della corte medicea e della cultura fiorentina quattrocentesca. Sia la “Nascita di Venere” che la tavola della “Primavera” furono molto probabilmente realizzate per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici che era cugino di Lorenzo il Magnifico e in stretti rapporti col Poliziano e Marsilio Ficino. Antecedente alla “Nascita di Venere”, la “Primavera” fu dipinta quando Botticelli non era ancora partito alla volta di Roma, dove verrà chiamato dal pontefice Sisto IV a decorare a fresco la cappella Sistina. Anche in questa ampia tavola, da leggersi da destra a sinistra, vediamo Venere al centro di un giardino lussureggiante. Sopra di lei svolazza Cupido bendato e sta per scoccare la freccia. Zefiro con le gote gonfie soffia in volto a Clori, che tiene in bocca un ramoscello fiorito, vestita di un candido velo che lascia trasparire le membra. Dopo essere stata “soffiata”, il suo sembiante è mutato in quello di Flora; sparge i petali raccolti nel lembo della veste. A sinistra, le tre Grazie e Mercurio, intento ad allontanare nubi grigiastre addensate in cielo. Il mito diviene fonte della bellezza, ma appartenendo a un’età trascorsa, si tinge di lievissima malinconia. Questa bellezza non si traduce in pure forme, ma può essere percepita nell’esperienza di sensazioni vissute.

 


"Primavera"


 

Pur essendo stata sottoposta a interpretazioni allegoriche, filosofiche, iconologiche, causa talvolta di asfissia, non possiamo ridurre la “Primavera” a un vuoto, per quanto stupefacente, esercizio di stile, né il Botticelli a un passivo traduttore di idee e suggerimenti altrui. Nell’arco di un trentennio il suo fare muta e il passaggio dalle opere più estetizzanti a quelle più intensamente drammatiche, vedi la “Calunnia” degli Uffizi o la diverse redazioni del tema della “Pietà”, è indice della profondità del suo pensiero oltre che dell’abilità del pennello. La calma panica che regna nella “Nascita di Venere” e nella “Primavera” lascia poco alla volta il passo alla concitazione. Intatta rimane la perfezione, essendo risultato di assai più di una semplice, calligrafica perizia esecutiva. Ciò vale per i dipinti totalmente autografi, non per quelli di collaborazione o usciti dalla bottega. Le testimonianze letterarie, la fitta rete di documenti e gli studi hanno sortito un’immagine molto variopinta di questa bottega, sita nella casa ove Botticelli viveva con fratelli, nuore, nipoti e uno stuolo di aiuti e “creati”, tipo quel Biagio che, a detta di Vasari, avrebbe realizzato un quadro a imitazione del maestro, spacciandolo per originale; o quell’ignoto “garzone”, citato in una denuncia anonima di sodomia, sporta nel 1502 contro Sandro e anticipata da una di uguale argomento anni prima, denunce mosse da invidia e da malvolere, frequentissime nella Firenze delle delazioni, ma, visto che non ebbero seguito, forse non fondate.

 

E’ però probabile che nell’allegra compagnia si mescolasse qualche scioperato, ivi finito non per imparare il mestiere, ma per assicurarsi il pranzo e la cena. Degli allievi migliori si conoscono i nomi, per esempio di Jacopo di Domenico Papi, cui vengono attribuite alcune opere autonome. In ogni caso, il numero dei dipinti declassati a prodotti di collaborazione o peggio, negli ultimi anni è cresciuto in misura considerevole, suscitando discussioni, indignazione, controversie e malumori. Utile ad affinare didatticamente lo sguardo è la “Madonna con il bambino e san Giovannino” della Galleria Palatina, dove a denunciare l’intervento parziale della bottega sono certe rigidezze di tratto, visibili nel broccoletto ben pettinato dei riccioli biondi di Gesù. Ben più morbida e musicale è l’aristocratica finezza lineare di Sandro. Si aguzzi lo sguardo per coglierla e, possibilmente, per farla capire.

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