Richard Ansdell (1815-1885), Guardacaccia con cani

A caccia di Dio

Matteo Matzuzzi
L’uomo contemporaneo può riconoscere il Mistero dai segni visibili. Il bisogno di nuovi profeti. La società in cui viviamo non è peggiore rispetto a un tempo. E’ cambiata la cultura, divenuta mortificante e opprimente

La beccaccia non si vede, ma il setter, nei boschi al confine tra le terre senesi e la Maremma grossetana, ne percepisce la presenza. La sente, la riconosce dai segni, dalle tracce che lasciano presumere con certezza che era lì fino a poco prima e che da qualche parte c’è ancora, magari intenta a scrutare dall’alto coloro che la cercano, più in basso, immersi nella bellezza del creato. Tanto bastò al cardinale Giacomo Biffi per imbastire su tale esperienza – serio e tutt’altro che provocatorio o ironico –  una sorta di “teologia della beccaccia”, dove il simbolismo era ricco e profondo. La caccia come esperienza di fede, il cane che scruta l’orizzonte, ferma la beccaccia, la guida e la punta. Pare un racconto di Ivan Turgenev – un grande della letteratura russa chissà perché sempre messo in ombra rispetto ai suoi più prolifici contemporanei – ma in realtà è l’esperienza di David Cantagalli, numero uno dell’omonima casa editrice toscana che ha appena lanciato in libreria la collana “A caccia di Dio”, una serie di volumi centellinati cum grano salis che si ripromettono di intercettare il bisogno di Dio dell’uomo contemporaneo, “facendo risuonare in lui la corda troppo spesso tacitata della sua ragione insoddisfatta”.

 

A leggere la presentazione della collana, si comprende il legame con quella teologia della beccaccia – “che è un selvatico strano diverso dagli altri selvatici, quali ad esempio il fagiano e la pernice; un selvatico misterioso, fonte di una ricca letteratura specializzata”, dice Cantagalli – di biffiana definizione: l’uomo inquieto è – forse inconsapevolmente – a caccia di Dio e il senso dell’opera è di condurlo all’istante in cui resta per un attimo bloccato in attesa, come (appunto) un setter che abbia fiutato una beccaccia, e poi accompagnarlo nella ricerca di quella preda che vale ogni fatica. Un bisogno quello dell’uomo, “la cui forza è impossibile da misurare”, dice il direttore della collana, padre Mauro Giuseppe Lepori, dal 2010 abate generale dell’Ordine Cistercense. “Il problema dell’uomo contemporaneo è che questo bisogno è diventato incosciente, molto censurato. Direi che è stato soppresso, riempito da altro, alienato da bisogni diversi. Oppure, se vogliamo guardare la situazione da una diversa angolazione, è presente ma si punta a soddisfare se stesso in cose immediate”. Non c’è nulla di nuovo, sia chiaro: “E’ una tentazione dell’uomo in tutti e di tutti i tempi. Dal peccato originale in poi, tutta l’umanità mortifica il suo bisogno di Dio dentro l’idolatria”.

 

Eppure, oggi pare esserci qualcosa di più, come se il setter faticasse a trovare le tracce della beccaccia, come se fosse preda esso stesso d’un disorientamento che non gli fa individuare l’invisibile che però c’è, presente e soverchiante. “Forse, l’uomo contemporaneo – dice padre Lepori – è immerso in una cultura in cui questo opprimere il suo desiderio è diventato il fattore preponderante. Il che è una sorta di negazione della vera cultura, che è sempre consistita in qualcosa mosso da un desiderio di bellezza, di verità, di costruzione e di benessere. D’altronde, nelle società in cui questo desiderio era coscientemente teso all’infinito, si è visto che l’espressione culturale era bella, proprio perché in fondo questa stessa cultura esprimeva tale desiderio”. Qui, oggi, si vede un discrimine, una cesura netta, con “una cultura contemporanea che fa emergere con chiarezza il tentativo di bloccare e di mortificare questo desiderio del bello”.

 

Lo mortifica e lo censura, “però questo desiderio rimane, è inevitabile”. Serve dunque un input, una scossa salutare che porti risposte a questo bisogno: “C’è un bisogno costante di profeti che risveglino l’apertura all’infinito del desiderio che si manifesta nel cuore”, spiega l’abate cistercense. Spesso, è proprio quella cultura mortificante che impedisce ai profeti di raggiungere l’uomo e uno degli scopi della collana è proprio quello di consentire ai profeti di raggiungere l’uomo”. Un discorso alto e complesso, non facile per le orecchie dell’uomo contemporaneo, per lo più portato a confondere il profeta con l’eremita, un mistico appartato che prega per la salvezza comune. “Di profeti ne abbiamo, ci sono quelli di sempre. La cultura, dopotutto, non si fa oggi. C’è una lunga tradizione profetica di gente che ha suscitato il desiderio del vero, del bello, del buono”.

 



Sacrificio di Isacco, Caravaggio (dett.)


 

E’ necessario, oggi più che mai, avverte Lepori, “riannodare un’amicizia tra l’uomo contemporaneo e questi profeti”. Idea ambiziosa, proposito attraente, ma come si fa? “Innanzitutto, è necessario partire da sé. Chi lo fa, sperimenta che incontrando e ascoltando e leggendo un profeta ha realizzato una vita più piena e più umana. Di conseguenza, avverte il desiderio di comunicarlo a tutti”. Si deve partire da un presupposto essenziale, che smentisce tante narrazioni catastrofiche e catastrofiste, peana luttuosi e sensi d’inferiorità più o meno manifestati: “La società in cui viviamo non è peggiore delle società d’un tempo”, osserva Lepori. Certo, qualcosa è cambiato, se è vero che “questa è come fosse una società di cadaveri, di gente che non vive, che non sa cosa sia la felicità”. E’ dovuto all’inquietudine dell’uomo contemporaneo, su cui tanto s’è scritto negli ultimi decenni? “Il problema è piuttosto che l’uomo d’oggi è meno inquieto. Ha paura dello stato dell’economia, di ciò che succede nel mondo, ma è una paura legata quasi esclusivamente al contingente. Ma appare meno inquieto del senso della vita, e questo è l’elemento più preoccupante. Quando l’uomo non è inquieto, è seduto”.

 

Il rischio può essere quello di limitarsi a pensare secondo schemi mentali propri dell’occidente, proiettando a livello globale una diagnosi che, forse, è propria delle latitudini occidentali: “E’ vero, in Africa e in Asia, almeno nelle realtà che visito abitualmente, si è immersi ancora in una cultura in cui i rapporti sono prossimi al cuore. Il problema è che anche qui è sempre più forte, in queste popolazioni, la tentazione portata dai falsi profeti, dall’occidente, da noi. Un modello culturale teso solo a un progresso interno ma non profondo. Un soffocamento progressivo. E’ una situazione ben visibile”, dice padre Lepori, che precisa: “Non bisogna essere contro il progresso, sia chiaro. Ma la tendenza è di esportare uno schema di vita che ormai è per l’immediato e quindi soffoca i bisogni profondi del cuore”. Un cuore cui si bada sempre meno.

 

Rievoca un verso di Mario Luzi (Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?), il nostro interlocutore, per dire che “il soggetto responsabile che deve rispondere in noi e in tutti è il cuore. Ma – aggiunge – chi interroga ancora il cuore oggi? Chi tratta il curoe da soggetto responsabile? I più lo ignorano, molti lo trattano come organo di istintiva e sentimentale  reattività. Pochissimi aiutano l’uomo contemporaneo a mettere il cuore con le spalle al muro, chiedendgoli conto del suo desiderio, rendendolo responsabile del suo desiderio”. Si badi bene: “Non responsabile che desideri, perché questo è dato al cuore da Colui che lo fa. Ma responsabile di una coscienza di sé, di un sentimento cosciente di sé”.

 

Si torna al punto di partenza: in un’epoca in cui l’attenzione al contingente è sempre più opprimente, come può l’uomo ridestarsi, svegliarsi dal torpore mentre accanto a lui gli attentati sono quasi all’ordine del giorno e i preti vegono sgozzati sugli altari delle chiese in fresche mattine dell’estate francese. Può essere, per paradosso, proprio questo buio a rianimarlo? “Dipende da come reagiamo a quanto accade. Se reagiamo solo con la paura e la difesa, beh, non si va da nessuna parte. Guardiamo al flusso migratorio che preme ai confini del continente, che a mio avviso – dice il curatore della collana – è ciò che ci provoca. E’ qui che la provocazione va più in profondità. Non si tratta solo di difendersi da un attacco terroristico, dalla morte o dalla distruzione. Si tratta di accogliere l’altro, cioè di fare un’esperienza umana e anche cristiana. Se riduciamo questa provocazione a mero problema logistico, a quote e numeri, perdiamo un’occasione che è più profetica che politica”.

 

Il primo numero della collana è proprio di Padre Lepori, e l’incipt rende appieno quel che si voleva dire parlando dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo: “Perché dover andare a scuola, e lavorare, se poi si deve morire?”, chiede Maria Cristina (anni dodici) alla madre, mentre torna a casa dopo aver visitato il nonno morente. Madre che, spiega l’abate, gli ha trasmesso l’interrogativo cercando una risposta. “In un certo senso la domanda di Maria Cristina veniva a tranquillizzarmi”, scrive Lepori nell’Introduzione al volume: “Essa denota l’insorgere, proprio all’età in cui lo stesso Gesù Cristo cominciò a interrogare i dottori della Legge, della domanda più importante che è dato all’essere umano di porsi e di porre: la domanda sul senso della vita di fronte alla morte. Che senso ha vivere se dobbiamo morire? L’orizzonte della morte – aggiunge – desta la domanda sulla vita. Mi sono accorto allora che, in fondo, tutti i testi raccolti in questo volume sono animati essenzialmente da questa domanda. Che senso ha la vita umana, così grande e così fragile, così sublime e così misera, tesa all’infinito e sfidata dal limite? E’ questa la domanda del cuore che anima il desiderio e sempre stimola la ragione. E la risposta adeguata non può mai essere solo un discorso, ma la testimonianza di un’esperienza, di un incontro, di un avvenimento che soddisfano il cuore solo nella misura in cui si propongono e trasmettono come tali. Solo un’esperienza di vita che vince la morte senza censurarla è risposta adeguata alla vita che domanda una pienezza più grande dei suoi limiti”.

 

Certo, precisa subito al Foglio: “Non è una collana per ragazzi. Se dovessi pensare a un lettore-tipo, direi che questi è colui che sente risvegliare in sé la domanda sul senso della vita di fronte alla morte”. Risvegliare la fede tiepida? “Sicuramente nelle persone che vivono quest’avventura la fede c’è. Però, se la fede non attechisce in una coscienza dell’umano (che è presente in ogni uomo), non mette radici. Direi che la collana non vuole essere missionaria nel senso cattolico del termine”. Dopo Lepori, i profeti che accompagneranno le successive uscite (due all’anno secondo la tabella di marcia prevista), saranno Charles Péguy e Hans Urs von Balthasar, quindi (nel 2018) sarà la volta di Paolo VI e del De Profundis di Oscar Wilde. Una collana che “si sviluppa come è nata, e cioè come un incontro di amicizia tra chi compone il comitato di redazione. Tutto è nato in una cena, ci siamo ritrovati in questo desiderio di dare un contributo – che è piccolo perché non pretende di dare una risposta definitiva all’immenso bisogno che c’è – ma che è comunque importante. Lo scopo è di dare profeti all’uomo di oggi affinché possa sentire risvegliare in sé la ricerca di Dio che è in lui”, sostiene padre Lepori. “Abbiamo capito subito che l’amicizia è stata fondamentale per sperimentare quanto vogliamo proporre. L’amicizia, dopotutto, è una delle più grandi profezie dell’assoluto che si possono sperimentare. Soprattutto, un’amicizia nella tensione all’infinito, alla ricerca di Dio”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.