Ludwig Deutsch (1855-1935), “La partita a scacchi”, 1896

Le sfide dell'Automa di Kempelen

Tra l'uomo e le macchine, una partita a scacchi senza fine

Luciano Capone

Era un congegno meccanico che per due secoli stupì l’Europa e l’America. Lo chiamavano il Turco. Vinse contro campioni e contro Napoleone. Era solo un’illusione, Edgar Allan Poe capì per primo come funzionava.

“Non si fanno scrupolo di definire l’Automa un puro e semplice congegno meccanico, i cui movimenti non sono collegati all’intervento umano e che pertanto, al di là di ogni confronto, è l’invenzione più straordinaria dell’umanità. E lo sarebbe certamente, se le loro supposizioni fossero esatte”. Con lo stesso ingegno analitico di Auguste Dupin, l’investigatore protagonista dei racconti polizieschi che l’avrebbero reso famoso in tutto il mondo, un giovane e sconosciuto giornalista, Edgar Allan Poe, svelò – con l’osservazione e ragionamenti induttivi e deduttivi – il funzionamento del “Turco”, il marchingegno, il gioco d’illusionismo o la truffa che da oltre mezzo secolo affascinava, sfidava e conquistava le menti e le fantasie dei migliori ingegni dell’epoca, delle corti più importanti, dei regnanti e personaggi politici più influenti di due continenti, l’Europa e l’America. Il saggio di Poe, “Il giocatore di scacchi di Mälzel”, viene pubblicato nel 1836 sul Southern Literary Messenger, ma la storia del Turco – o del Giocatore di Mälzel o dell’Automa di Kempelen – inizia nel 1770, a Vienna, dal genio di Johann Wolfgang Ritter von Kempelen, funzionario ungherese dell’Impero asburgico, ma soprattutto studioso e inventore di congegni meccanici.

 

Dopo aver assistito a palazzo reale a uno spettacolo dell’illusionista francese François Pelletier, Kempelen decide di meravigliare l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo con un’invenzione senza pari, un automa che non solo avrebbe replicato alcuni comportamenti umani – come i tanti che venivano prodotti all’epoca – ma capace di interagire con gli uomini, di fare cose non predeterminate. Siamo in un periodo storico in cui nelle corti europee ingegneri e meccanici gareggiano nella costruzione di macchinari, precursori dei moderni robot, che diventano attrazioni pubbliche: ballerine meccaniche, modelli di carrozze autonome, sofisticati carillon, animali semoventi, suonatori e strumenti musicali automatici.

 

A inizio Settecento i salotti parigini sgranano gli occhi di fronte ai geniali automi di Jacques de Vaucanson: “Il suonatore di flauto” e “L’anatra digeritrice”, un uccello di bronzo che beccava i chicchi di grano e li defecava. Le scoperte scientifiche e l’affermazione del razionalismo illuminista fanno immaginare che tutto è possibile, anche la costruzione di un uomo-macchina. Dopo sei mesi di studio e progettazione, Kempelen costruisce una macchina capace di giocare a scacchi autonomamente e in grado di vincere contro chiunque. Insomma, con un paio di secoli d’anticipo il barone ungherese immagina il primo robot con intelligenza artificiale.

 

L’Automa di Kempelen consisteva in un manichino dalle sembianze e dall’abbigliamento orientale – da qui il nome “Turco”, con cui sarebbe passato alla storia – in grado di muovere i pezzi su una scacchiera poggiata su una grande cassa piena di ruote, fili, meccanismi e ingranaggi, che una volta avviati permettevano al Turco di spostare alfieri, torri e pedoni, battendosi alla pari con i migliori scacchisti. Il Turco stupì la corte asburgica e chiunque lo vedesse all’opera, tanto che Kempelen fu spinto a portare il suo automa in giro per l’Europa. La prima tappa fu Parigi, presso la corte di Maria Antonietta, sorella dell’imperatore austriaco Giuseppe II, che ne rimase così colpita da farlo esibire pubblicamente al Café de la Régence, dove si incontravano gli intellettuali parigini e si sfidavano i migliori scacchisti del tempo. La presenza del Turco attirò pensatori, giornalisti, curiosi e scienziati, ansiosi di sfidarlo e carprine il segreto; tra di loro anche Benjamin Franklin, all’epoca ambasciatore in Francia dei neonati Stati Uniti d’America, che giocò e fu sconfitto dall’automa.

 

Il Turco giocò anche contro Philidor, il più grande giocatore della sua epoca, prima che la Rivoluzione francese lo costringesse all’esilio a Londra, che rivoluzionò per sempre il modo di giocare a scacchi. Da Parigi Kempelen si sposta a Londra, dove stacca migliaia di biglietti pagati da persone si mettevano in fila per vedere un automa sconfiggere giocatori in carne e ossa. Dopo l’incredibile successo della tappa londinese, sulla via del ritorno la tournée toccò Amsterdam, Karlsruhe, Francoforte, Gotha , Lipsia e Dresda, raccogliendo, soldi, popolarità, articoli e libri, che nel futuro faranno passare il Turco dalla storia alla leggenda (si narra di partite mai giocate con Federico II a Berlino e Caterina II a San Pietroburgo).

 

L’Automa di Kempelen naturalmente non era un automa, ma un illusionismo, un gioco di prestigio, cosa peraltro mai negata dallo stesso inventore. Come tutti immaginavano, era manovrato da un uomo, ma nessuno riuscì a capirne e descriverne il funzionamento prima di Edgar Allan Poe decenni dopo. Kempelen aveva escogitato il suo inganno in maniera formidabile, il Turco era in effetti manovrato all’interno da una persona di statura piccola, disposta a stare in una posizione scomoda per tanto tempo e naturalmente molto abile nel gioco degli scacchi. Prima di ogni esibizione Kempelen apriva in maniera alternata le porte della cassa per mostrare l’interno, mentre l’uomo si spostava rapidamente da uno scomparto all’altro dietro gli ingranaggi.

 

Per seguire la partita dall’interno, il giocatore aveva un sistema di indicatori metallici posti sotto la scacchiera, che si spostavano seguendo i movimenti che avvenivano al sopra grazie a magneti inseriti nei pezzi. Il giocatore così riproduceva le mosse dell’avversario su una scacchiera portatile ed eseguiva le proprie azionando una leva pantografica che permetteva al braccio del Turco di prendere i pezzi e spostarli nelle giuste caselle. Per farsi luce utilizzava una candela il cui fumo e odore di cera venivano coperti dalla scenografia esterna, che prevedeva due candelabri per illuminare il piano con la scacchiera. Dopo il tour, forse seccato da tanta popolarità e annoiato dalle apparizioni che si ripetevano identiche, Kempelen decise di smontare il Turco e metterlo in soffitta per dedicarsi ad altri studi e invenzioni: costruì nuove macchine parlanti che aprirono la strada alla fonetica sperimentale. Il barone Kempelen morì nel 1804, pensando di portarsi il segreto dell’automa nella tomba.

 


Charles Bargue (1826-1883), “Il gioco degli scacchi”


 

Ma la fama e la leggenda sopravvissero al suo ideatore regalando una nuova esistenza al Turco, quando passò, in cambio di una somma consistente, dalle mani del figlio di Kempelen a quelle di Johann Nepomuk Mälzel, un poliedrico musicista e meccanico presso la corte d’Asburgo, amico di Ludwig van Beethoven, inventore del metronomo e anch’egli costruttore di automi. Mälzel ricostruì il Turco per scoprirne il segreto. Nelle mani del nuovo proprietario tedesco, il Giocatore di Mälzel – così venne ribattezzato – inizia una seconda vita. Come racconta Nino Grasso ne “L’imperatore che giocava coi re” (Mursia) – una biografia di Napoleone ricostruita attraverso la passione del generale corso per gli scacchi – il Turco incrociò la strada di Bonaparte.

 

Quando l’imperatore dei francesi nel 1809 sconfisse l’Austria ed entrò a Vienna, da appassionato ma non formidabile scacchista giocò nel castello di Schönbrunn alcune partite contro il Turco. Dell’evento circolano diverse versioni, “si passa da un Napoleone divertito, che testa le capacità dell’Automa facendo a bella posta mosse irregolari – scrive Grasso – a un Napoleone vanaglorioso e suscettibile che va via di malumore, contrariato dalla sua sconfitta”. Il Turco successivamente entrò a far parte della famiglia Bonaparte, quando pochi anni dopo Eugenio Beauharnais – figlio di prime nozze di Giuseppina e nominato da Napoleone viceré d’Italia – dopo aver assistito a un’esibizione, si entusiasmò a tal punto da decidere di acquistarlo con un’offerta irrinunciabile: 30 mila franchi, il triplo dell’investimento fatto da Mälzel.

 

Ma si tratta solo di una separazione temporanea, perché con il crollo di Napoleone e la Restaurazione, Mälzel riacquistò il Turco da Eugenio e, dopo aver ingaggiato un bravo maestro di scacchi per animare il macchinario, porta il Turco in giro per l’Europa e poi in tour in America, dove incrocia quel curioso giornalista di nome Edgar Allan Poe che, descrivendo minuziosamente i movimenti e i probabili meccanismi, ne rivelò i segreti. Anche se qualche sua ipotsi si rivelò poi non esatta Poe intuì, con una specie di test di Turing al contrario, che il Turco non poteva essere una macchina perché, osservando le pause in alcuni frangenti delicati del gioco, pensava e agiva in maniera troppo simile a un uomo. E soprattutto l’Automa perdeva qualche partita: “Se il congegno fosse un semplice meccanismo – scrive Poe – questo non accadrebbe, vincerebbe sempre. Una volta scoperto il principio in base al quale una macchina può giocare una partita a scacchi, sarebbe facile metterla in condizioni di vincerla; e, sempre in base allo stesso principio, di vincerle tutte”.

 

Come vedremo, la deduzione di Poe è talmente logica e vera che un secolo e mezzo dopo si verificherà proprio quanto intuito. In ogni caso la macchina colpì talmente l’immaginazione dello scrittore americano, che una decina d’anni dopo Poe scriverà un racconto, “Von Kempelen e la sua invenzione”, che, con un chiaro omaggio all’inventore del Turco, parla di un ambiguo personaggio che trasforma il piombo in oro. Per diversi anni l’automa proseguì nelle sue tournée, anche a Cuba, ma una volta svelato il segreto al grande pubblico, si avviò verso un lungo declino, che si concluse nel 1954 con l’incendio del Museo Cinese di Philadelphia, dove era custodito, che lo ridusse in cenere. La parabola del Turco è formidabile non solo per aver attraversato due secoli, toccato due continenti, sfidato re, intellettuali, musicisti, statisti e scienziati, ma perché non ha smesso di ispirare scrittori, giornalisti e inventori.

 

Tra gli spettatori del primo tour inglese di Kempelen, capitò un certo Edmund Cartwright, che rimase impressionato dalla macchina, tanto da prendere ispirazione dai movimenti del braccio del Turco sulla scacchiera per replicare i gesti che gli uomini facevano sui telai. Insomma, se era possibile costruire un apparecchio capace di giocare a scacchi, l’idea di una macchina per la tessitura su cui stava facendo tante ricerche gli dovette sembrare all’improvviso molto più semplice. Due anni dopo, nel 1785, Cartwright introdusse il primo telaio meccanico idraulico per la tessitura del cotone, la principale innovazione che porterà a rimpiazzare il lavoro manuale tessile con le macchine, a quella trasformazione storico-economica che verrà chiamata Rivoluzione industriale.

 

Nel secondo tour a Londra con Mälzel, nel 1819, il Turco si esibì di fronte a un giovane matematico, Charles Babbage, che l’anno successivo volle sfidarlo. Babbage intuì che la macchina che aveva di fronte era in qualche modo controllata da una persona, ma pensò che non doveva essere poi così balzana l’idea di realizzare una macchina capace di riprodurre alcune facoltà intellettive. Babbage, che è passato alla storia come il precursore dell’informatica e dell’intelligenza artificiale per le sue idee sulla progettazione di un calcolatore programmabile, tre anni dopo l’incontro con il Giocatore di Mälzel realizzò la Difference engine – la macchina differenziale – un apparecchio di calcolo matematico, il papà dei computer. L’Automa di Kempelen ha stimolato inventori e imprenditori anche in questo secolo: Jeff Bezos ha chiamato “Amazon Mechanical Turk” la piattaforma di crowdsourcing di Amazon che permette ai programmatori di eseguire compiti e attività intellettive che i computer non sono in grado di effettuare.

 

Nella storia del Turco c’è quindi il passato, ma anche il futuro: la “Race against the machine” – la gara con le macchine descritta da Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee – ovvero la sfida della robotizzazione al mondo del lavoro; la sostituzione delle macchine all’uomo, che dal lavoro manuale dei tessitori dei tempi di Cartwright ora si sposta al lavoro intellettivo, con la paura della disoccupazione tecnologica che l’uomo si porta dietro dai tempi di Ned Ludd. Ma c’è anche la prospettiva dell’integrazione tra uomo e macchina, che non è solo quella fantascientifica dei cyborg, ma l’unica strada per uscire vincenti dalla rivoluzione tecnologica. “Se tu e le tue capacità siete complementari al computer – scrive Tyler Cowen, economista della George Mason University, nel libro “La media non conta più” (Egea) – è probabile che le tue prospettive retributive e sul mercato del lavoro siano positive. Se le tue capacità non sono complementari al computer, può essere che tu debba affrontare questo sfasamento. Sempre più persone stanno venendo a trovarsi da un lato o dall’altro dello spartiacque. Ecco perché la via di mezzo non c’è più”.

 

Cowen, che oltre a essere un fine economista è un appassionato scacchista, indica questo spartiacque storico in un evento specifico: nel 1997 Deep Blue, un computer dell’Ibm, batte Garry Kasparov, campione del mondo e probabilmente il più grande giocatore di scacchi di sempre. Anche se ancora oggi ci sono dubbi sull’autenticità di quell’incontro, per alcune mosse anomale di Kasparov in una partita che si era messa in maniera simile ad altre che aveva giocato contro il suo storico rivale Anatoly Karpov, attualmente non esiste essere umano capace di vincere a scacchi contro computer che hanno capacità di memoria e di calcolo ineguagliabili.

 

Negli scacchi attuali, se un giocatore fa troppe mosse coincidenti a quelle che potrebbe fare un software, suscita sospetti. Un caso emblematico è il “Toiletgate”, scoppiato durante la finale del campionato mondiale del 2006 tra il russo Kramnik e il bulgaro Topalov. Nella fase più delicata del match il manager di Topalov protestò contro gli organizzatori perché Kramnik andava troppo spesso in bagno, l’unico luogo non controllato da telecamere, in cui il russo avrebbe potuto in qualche modo ricevere l’aiuto di un computer. A quel puntò il manager di Kramnik, proprio per l’assenza di telecamere, denunciò il timore che il team avversario avrebbe potuto piazzare in bagno un dispositivo per far cadere la colpa sul suo assistito.

 

Ma il caso più clamoroso, almeno nei tempi recenti, è l’espulsione di Arcangelo Ricciardi dal Festival Scacchistico Internazionale di Imperia del 2015. Durante il torneo Ricciardi aveva inanellato una serie incredibile di vittorie, battendo campioni molto più conosciuti e affermati. Oltre ai successi inaspettati in serie, ciò che insospettiva erano alcuni comportamenti strani di Ricciardi: non guardava la scacchiera, non si alzava mai, stava sempre con le braccia incrociate. Inoltre, dopo le vittorie, non si fermava mai ad analizzare le mosse con gli avversari, come si usa dopo ogni partita a scacchi. In pratica, seguendo il ragionamento inverso applicato da Edgar Allan Poe al Turco, Ricciardi non si comportava affatto come un normale giocatore: era una macchina.

 

Dopo una perquisizione risulta pulito. Ma i dubbi degli organizzatori non si diradano, così il giorno successivo viene a sorpresa fatto passare sotto un metal detector, che gli trova addosso un ciondolo con una microcamera e un ricevitore che lo scacchista teneva sotto l’ascella: evidentemente un complice seguiva le mosse attraverso la microcamera e guidava la partita impartendo le mosse elaborate da un computer. Si ribalta così l’intuizione alla base dell’Automa di Kempelen: dopo oltre due secoli è l’uomo che nasconde la macchina ed è la macchina che muove il braccio dell’uomo.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali