Alle elezioni del 26 giugno Mariano Rajoy è andato un po’ meglio, tutti gli altri un po’ peggio, ma la Spagna è ancora priva di una maggioranza (foto LaPresse)

Il mal di Spagna

Eugenio Cau
La paralisi elettorale, la crisi del bipartitismo, la rinascita economica. Romanzo di un anno che ha scardinato la noia della politica iberica

Un paese senza un governo funzionante da quasi un anno, nonostante due elezioni, due voti di fiducia del Parlamento e infinite ore di negoziati pubblici e sottobanco. Un sistema politico un tempo prevedibilmente bipartitico che oggi è sconquassato dall’arrivo di nuove e più dinamiche formazioni. I due partiti della tradizione l’uno colpito da continue inchieste e accuse di corruzione e l’altro messo in ginocchio e decapitato da terrificanti lotte interne. Un leader destinato a vincere ma incapace di conquistare una maggioranza stabile, e azzoppato da un tasso di gradimento ai minimi storici. Una classe politica che più che materia di disprezzo da parte della popolazione ormai rischia di essere oggetto di dileggio internazionale. La regione economicamente più dinamica del paese governata da movimenti indipendentisti che annunciano a più riprese, e con credibilità variabile, operazioni di “distacco unilaterale”.

 

A guardare a volo d’uccello la situazione del sistema politico della Spagna, sembra che il paese sia sull’orlo del collasso: paralisi istituzionale, incomunicabilità tra i partiti, disaffezione crescente da parte degli elettori sono gli ingredienti di una delle più singolari crisi politiche della recente storia europea. Ufficialmente, la crisi è iniziata il 20 dicembre dell’anno scorso, quando le elezioni generali per il rinnovo delle Cortes, il Parlamento spagnolo, non ha restituito nessuna maggioranza numericamente abbastanza forte per formare un governo. Il Partito popolare (Pp) del premier uscente Mariano Rajoy, che usciva da quattro anni di lacrime, sangue e scandali di corruzione, era ancora il più votato, ma la sua maggioranza era stata decurtata pesantemente dallo scontento popolare e dall’ascesa di un movimento centrista e rinnovatore come Ciudadanos. Dall’altro lato dello spettro politico lo storico Partito socialista (Psoe), guidato da Pedro Sánchez, leader giovane e dinamico che aveva fatto il suo esordio europeo insieme all’italiano Matteo Renzi e al francese Manuel Valls appena un anno prima, aveva subìto la più dura sconfitta della sua storia, minacciato a destra sempre da Ciudadanos e a sinistra da Podemos, formazione di estrema sinistra e antisistema sorta a sorpresa nell’anno precedente dalle ceneri delle proteste degli indignados di Puerta del Sol. La classe politica spagnola, poco abituata al compromesso e alle grandi coalizioni, si è mostrata singolarmente inadatta alla nuova situazione. Rajoy, tecnocrate spurio, ha fatto dell’attendismo non solo una strategia politica ma una filosofia di vita, e ha tenuto le sue carte coperte per mesi. I due giovani leader dei nuovi partiti, Albert Rivera di Ciudadanos e Pablo Iglesias di Podemos, avevano fatto le loro fortune sul sentimento di stanchezza degli spagnoli nei confronti della vecchia politica, e per mesi non sono stati disposti a scendere a patti con essa. Il dinamico leader socialista Sánchez si è dimostrato alla prova dei fatti molto meno dinamico e ben più inesperto del previsto, e soprattutto più occupato a non avere nemici a sinistra che a dare un governo al paese. Una prima fase di negoziati impacciati e voti di fiducia falliti si è trascinata penosamente fino alla ripetizione delle elezioni, il 26 giugno di quest’anno. Dalle urne, però, non è uscita nessuna novità (Rajoy è andato un po’ meglio, tutti gli altri un po’ peggio, ma ancora nessuna maggioranza), e una seconda fase di negoziati impacciati e voti di fiducia falliti si è trascinata ancor più penosamente fino a rendere plausibile l’impensabile: terze elezioni, che per giunta il calendario elettorale prevedeva il giorno di Natale (una leggina ad hoc ha corretto la data).

 

Così, nei retroscena dei media locali e nelle cronache sempre più stupefatte dei giornali internazionali, si è iniziato a parlare, pur senza mai citarlo esplicitamente, del mal spagnolo. Com’è possibile che uno dei paesi politicamente più stabili d’Europa – dove i governi sono sempre arrivati a fine mandato, in cui l’alternanza era un affare noioso e prevedibile e la cui legge elettorale era considerata un virtuoso esempio da seguire – abbia generato una paralisi politica tanto micidiale?

 

Le ragioni del mal spagnolo sono un mix unico di coincidenze e flussi storici. Negli ultimi anni la Spagna è stata investita come e più degli altri paesi dell’occidente da un forte sentimento anti establishment, che però ha assunto forme peculiari. Caso unico in Europa, nella sua storia democratica la Spagna non ha mai avuto un vero movimento di estrema destra, e anche in questo caso il desiderio di rigenerazione è sfociato altrove: in Podemos – incrocio tra le istanze degli indignados e un esperimento di ingegneria politica nato tra i corridori dell’Università Complutense di Madrid e gli uffici ideologici del regime venezuelano – e, specularmente, in Ciudadanos. Due partiti che a loro modo non mirano a sconquassare l’establishment, ma a entrarvici, e dunque non abbastanza minacciosi da spingere i partiti tradizionali ad alleanze e grandi coalizioni. Al contrario, tanto i popolari quanto i socialisti hanno visto nell’arrivo dei partiti emergenti un’opportunità per colpire il rivale storico. I partiti tradizionali, inoltre, hanno sottovalutato gravemente la crisi di credibilità provocata da un lato dalle politiche austere applicate negli anni della crisi e dall’altro dagli scandali di corruzione che hanno colpito tanto i popolari quanto i socialisti, con maggiore insistenza sui primi. Una classe dirigente nel suo complesso poco avvezza al dialogo e al compromesso, esacerbata dagli scontri duri degli anni della crisi, ha fatto il resto. Per risolvere la paralisi sarebbe servito quel premier unificatore che Rajoy non è mai stato, un capo dell’opposizione ragionevole che Sánchez ha dimostrato di non essere e un sistema che ancora credeva nel bipartitismo. Nessuna di queste condizioni si è avverata, e il mal spagnolo ha prosperato.

 

Ma il vero paradosso è il fatto che, benché la gran parte di sintomi che ha provocato la crisi politica sia ormai sparita, la malattia non guarisce. La risurrezione economica della Spagna è una storia di successo celebrata in tutto il mondo. Secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2016 il paese crescerà del 3,1 per cento, uno dei tassi più alti tra i paesi industrializzati, e dopo anni in cui ai successi macroeconomici non corrispondevano benefici per i cittadini la disoccupazione ha iniziato a scendere in maniera costante, mentre aumentavano la spesa delle famiglie e la fiducia. Certo, la Spagna rimane uno dei paesi con il tasso di disoccupazione più alto del continente, e il rapporto deficit/pil fuori dai parametri preoccupa l’Europa, che minaccia multe miliardarie. Ma la cura da cavallo imposta da Rajoy negli ultimi quattro anni ha funzionato, e in Spagna c’è ottimismo, a patto di non toccare il tema della situazione politica.

 

Il mal spagnolo non è uno stato di malattia sistemica della Spagna nel suo insieme, ma del suo sistema politico. Fuori dai palazzi del potere, la Spagna non stava così bene da quasi un decennio, tanto che in questi mesi si è diffusa l’illusione ottica per cui senza un governo, o con un governo facente funzione come quello presieduto oggi da Rajoy, il paese stia meglio di prima. E’ vero, il paese sembra marciare anche senza locomotiva grazie al decentramento delle istituzioni spagnole, che concedono ampi poteri ai governatori locali. Ma come tutti gli analisti sanno, la buona sorte dell’economia è il frutto dell’eredità del governo Rajoy, che sta per finire: se non sarà approvata presto la legge del Budget per il 2017, il paese rischia di bloccarsi, e non c’è nessun governo eletto che possa vararla.

 

Il mal spagnolo si sta traducendo anche in una generale apatia. La rabbia anti establishment che Podemos e Ciudadanos avevano cavalcato al momento della loro ascesa adesso si è sublimata in un blando disinteresse. Nacho Cardero, direttore del giornale online El Confidencial, ha detto questa settimana al New York Times che dall’analisi dell’andamento del suo giornale si deduce che gli articoli sulla crisi politica, i voti di fiducia e le trattative per il governo, dopo un picco iniziale non li legge più nessuno. Anche i sondaggi, almeno fino alla settimana scorsa, dicevano che in caso di terze elezioni la situazione dei partiti non si sarebbe comunque smossa, segno che la paralisi politica in Spagna è sistemica. Questa settimana il Centro di investigazioni sociologiche, il principale istituto statistico di Spagna, ha pubblicato un sondaggio secondo cui quasi il 90 per cento degli spagnoli (l’87,1 per cento) ritiene che la situazione politica del paese sia cattiva o molto cattiva.

 

L’indipendentismo catalano, o meglio l’incapacità della classe politica di Madrid di respingerlo con convinzione, è un altro segnale della crisi. Il governatore catalano Carles Puigdemont – leader di una coalizione indipendentista che per governare ha dovuto stringere alleanze con la Cup, movimento antisistema al cui confronto Podemos sembra un consesso di moderati socialdemocratici – ha annunciato di recente che organizzerà un referendum per l’indipendenza anche senza il consenso di Madrid, e rinnovato una sfida al governo centrale che si trascina da anni. Questa settimana il Parlamento locale ha approvato l’istituzione di quello che i giornali nazionali definiscono il “referendum illegale”. Tre dei quattro principali partiti spagnoli (è escluso Podemos, che su questi temi adotta una prospettiva marxista classica e considera l’autodeterminazione come una questione di secondaria importanza) sono rigidamente favorevoli al mantenimento a tutti i costi dell’unità nazionale, ma ancora una volta la rivalità interna ha minato la capacità dei partiti di dare una risposta unitaria e ha lasciato che la crisi catalana prima si dilungasse e poi degenerasse.

 

Il quadro di immobilismo della situazione politica spagnola ha però subìto una svolta improvvisa nelle ultime settimane. La pressione che la paralisi politica ha esercitato sui partiti – sulla loro discpilina interna, sulla tenuta dell’elettorato, sulla capacità di non deviare dalla linea scelta, per quanto insensata essa sia – alla fine è diventata insopportabile per il Psoe e Pedro Sánchez. Dopo una lunga serie di scosse telluriche, la settimana scorsa l’antico Partito socialista spagnolo si è frantumato. Una ribellione interna contro la linea dell’intransigenza voluta da Sánchez avrebbe dovuto, nel piano dei ribeli capeggiati dall’ala andalusa del partito, rimuovere in maniera pulita il segretario e dare inizio a una fase di rinnovamento. Il coup però è fallito, e Sánchez si è dimesso dopo una settimana di durissime lotte intestine che hanno lasciato il Psoe diviso in due, atomizzato e vulnerabile agli attacchi da sinistra (Podemos) e da destra (il Pp). Sánchez è da sempre il principale ostacolo alla risoluzione della paralisi istituzionale spagnola (secondo la matematica parlamentare, Rajoy avrebbe bisogno di una manciata di astensioni socialiste per formare un governo di minoranza), ma la disintegrazione di uno dei due partiti storici della politica spagnola (che adesso è governato da un gruppo di garanti, ma presumibilmente dovrà affrontare un lungo deserto elettorale) rischia di fare più male che bene. Anzitutto perché Podemos, che a sua volta attraversava un momento di forte crisi ma è riuscito nell’impresa di non spaccarsi, adesso non ha argini immediati nel voto a sinistra, e poi perché un crollo elettorale dei socialisti rischia di sbilanciare definitivamente un sistema bipolare già colpito a morte. Rajoy potrebbe accontentarsi dell’astensione socialista per formare un governo di minoranza, ma potrebbe farsi ingolosire dall’opportunità di vedere il vecchio nemico in ginocchio, forzare nuove elezioni e, a meno di sorprese, formare un governo forte di una base parlamentare più consistente. In ogni caso, la Spagna potrebbe vedere presto la fine della paralisi istituzionale, ma il mal spagnolo è qui per restare.

 

La Spagna dovrà abituarsi a una nuova epoca di governi più variegati e soprattutto più traballanti, dovrà imparare a fare i conti con il populismo, che sia quello economico/politico di Podemos o quello indipendentista delle formazioni al potere in Catalogna, e dovrà fare i conti con una voglia di rinnovamento ormai trasformatasi in apatia a cui i partiti non hanno ancora saputo dare risposta. Alla fine, Rajoy riuscirà a formare il suo governo, ma è quello che viene dopo che dovrebbe preoccuparlo.
Twitter @eugenio_cau

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.