Novak Djokovic saluta il pubblico dopo avere battuto Kei Nishikori in finale a Miami. Il prossimo obiettivo è il Roland Garros, unico trofeo del Grande Slam che manca al tennista (foto LaPresse)

Chi può battere Novak Djokovic

Giorgia Mecca
Inizia oggi il torneo di Montecarlo. Dopo avere sconfitto tutti gli avversari possibili, ora il tennista serbo mira a polverizzare ogni record. Come lui pochi nella storia dello sport.

Era l’aprile del 2006, l’inizio della stagione sulla terra rossa. Roger Federer aveva 25 anni e sembrava arrivare da un altro pianeta; per lui Gianni Clerici aveva coniato un neologismo, federerissimo, termine che indicava un colpo più perfetto del solito. Al primo turno del torneo di Montecarlo, il numero uno del mondo doveva affrontare un ragazzetto serbo magro come un chiodo, non ancora ventenne. Era il numero 90 e qualcosa del ranking mondiale, un po’ troppo poco per impensierire uno che fino a quel momento aveva perso una sola partita (in finale contro Nadal). Ci si aspettava la solita esibizione di poco più di un’ora, ma non fu così. Il ragazzino guardava colui che stava dall’altra parte della rete come si guarda un avversario normale, non il signore del tennis.

 

Non solo: mentre il pubblico assisteva a una partita alla quale non era preparato, quel ragazzo, sfrontato ma per niente ingenuo, con una smorzata dietro l’altra riuscì a vincere un set. La prima partita tra Federer e Novak Djokovic, giocata esattamente dieci anni fa, la vinse al terzo set il giocatore svizzero. Era naturale che andasse così, nel 2006. Quell’anno Federer giocò 92 partite, perdendone solamente 5, una percentuale di vittorie del 94,84 per cento. Federerissimo. In molti si chiedevano se il numero uno del mondo fosse il giocatore più forte di tutti i tempi, alcuni rispondevano di sì. Roger Federer è imbattibile? No, non lo era. Se ne sarebbe accorto anche lui proprio a Montecarlo quello stesso anno, e poi a Roma e a Parigi: tre finali e tre sconfitte consecutive.

 


Federer e Djokovic durante la semifinale dell'Australian Open 2016 (foto LaPresse)


 

Rafael Nadal, con tutto il rispetto di cui era capace, sapeva come si batte un campione, il migliore di tutti. In quegli anni il tennis era una questione tra loro due. Tra il 2006 e il 2010 i due tennisti si sono affrontati 18 volte, dando vita alla rivalità più bella del tennis: la grazia contro il suo esatto contrario. Nadal vinceva quasi sempre, Federer rimaneva il più forte. Novak Djokovic intanto cresceva; era diventato il terzo giocatore al mondo, guardava i due campioni da vicino, a volte gli capitava di batterli. “Pensi che Roger e Rafa siano più forti di te?”, gli domandarono durante una conferenza stampa “No”, rispose lui, “hanno solo più esperienza”. Nel 2008, dopo la semifinale degli Australian Open vinta da Djokovic contro Federer, Djiana, la mamma di Nole, in favore di telecamera disse sorridendo: il re è morto. Era questione di un anno o poco più, poi suo figlio sarebbe diventato il più forte giocatore del mondo. Era quello che ripeteva lui fin da quando aveva otto anni. E’ vero che lo dicono tutti i bambini appena prendono una racchetta in mano, ma lui non aveva smesso un solo giorno di lavorarci. “Ci sono stati giorni in cui hai pensato che sarebbe stato impossibile?”, gli chiesero un giorno.“Impossibile? Mai”. Una macchina da guerra, ecco ciò che doveva diventare.

 


Djokovic e sua madre Dijana


 

Nel 2011, a ventiquattro anni, sembrò esserci riuscito. In quella stagione vinse 10 titoli, tra cui Australian Open, Wimbledon e Us Open, tre dei quattro slam. 70 vittorie e solamente sei sconfitte in tutta la stagione, a luglio era diventato il numero uno del mondo. Ce l’aveva fatta, eppure non gli bastava ancora. Dal 2011 a oggi Novak Djokovic non ha fatto altro che migliorare: lo yoga, la meditazione, un’attenzione maniacale per tutto quello che mangiava e poi Boris Becker come suo secondo allenatore. Novak Djokovic voleva diventare il più forte di tutti, ci stava riuscendo. Lo scorso anno, dopo una stagione con il 93,18 per cento di vittorie e quel grande slam mancato per una sola partita (la finale del Roland Garros contro Stanislas Wawrinka), tutti hanno capito che Djokovic era diventato praticamente invincibile. Federer e Nadal erano gli unici a non volerlo ancora ammettere, ma la loro storica e invecchiata rivalità, in una monarchia che meritava di essere assoluta, era stata relegata a tennis minore.

 

Il pubblico non fa quasi mai il tifo per il tennista serbo, sono i numeri a parlare per lui. Djokovic è il primo del ranking mondiale con così tanti punti di vantaggio rispetto al numero 2 Andy Murray, (16.540 punti contro 7.815) che ci si chiede come sia possibile che un giorno qualcun altro possa superarlo. Nel 2015 ha vinto 11 titoli (in carriera, fino a questo momento sono 63, contro gli 88 di Federer). Quest’anno ha perso una partita sola, e non era una sconfitta: durante i quarti di finale del torneo di Dubai si è ritirato contro Feliciano Lopez, dopo aver vinto il primo set per 6/3. Novak Djokovic non ha il talento di Federer, non ha nemmeno il fisico di Nadal, eppure è diventato impossibile batterlo. Kei Nishikori, suo ultimo avversario durante la finale del torneo di Miami, dopo aver perso 6/3 6/3, ha ammesso di non avergli ancora trovato un punto debole. Il suo modo di difendersi è in realtà una specie di attacco ben eseguito, in campo sembra che non sappia nemmeno cosa significhi avere paura.

 

Durante la semifinale degli Us Open del 2011, Roger Federer era in vantaggio per 5-3 nel quinto set, stava servendo per la finale. Sul 40-15, con due match point a favore, tirò un servizio angolato e fortissimo che contro chiunque sarebbe stato un vincente. Djokovic, con una calma che non si sa da dove provenisse, rispose con un dritto diagonale ancora più forte, sull’incrocio della riga. 40-30. Alla fine, quella partita la vinse il tennista serbo e qualcuno pensò che si trattasse di fortuna. Era vero, lui però era andato a cercarsela. La scorsa settimana, dopo aver vinto il torneo di Miami, ha superato i 98 milioni di dollari solo di montepremi, un soffio dai 100 milioni, il traguardo a cui nessuno sportivo della storia è mai riuscito ad arrivare. A lui basta un solo Slam.

 


Oltre ad essere uno dei giocatori più forti del mondo, Djokovic è anche uno dei più divertenti e che meglio sa intrattenere il pubblico


 

C’è una lezione che lo sport, più di qualunque altra cosa nella vita, insegna fin da piccoli: la palla, qualsiasi tipo di palla, è rotonda e non si sa mai che cosa possa succedere dentro un campo da gioco. Le partite finiscono quando scade il tempo e solo in quel momento, nessuno sportivo che si rispetti è autorizzato a cedere prima della fine. “Soffri fino ad avere le lacrime agli occhi, ma non uscire mai dal campo, non smettere mai di correre”, dicevano a Nadal quando era ancora un bambino. A volte i miracoli succedono, ha detto Roberta Vinci uscendo vincitrice dalla semifinale degli Us Open contro la giocatrice più forte del mondo, Serena Williams. Contro il Djokovic di quest’anno, però, i miracoli non bastano più. Chi può batterlo? Probabilmente nessuno. La palla è rotonda e continuerà a esserlo, ma nella storia di tutti gli sport ci sono stati personaggi talmente più forti rispetto a tutti gli altri, che contro di loro non si poteva fare altro che perdere, o almeno, così sembrava.

 

Rocco Frances Marchigiano era un ragazzetto italoamericano che pur di non lavorare avrebbe praticato qualsiasi sport. Il baseball gli piaceva da morire, divenne il più grande pugile di tutti i tempi. Tra il 1949 ed il 1956, Rocco, che aveva cominciato a farsi chiamare Rocky Marciano per piacere di più agli americani, su 49 incontri disputati, li vinse tutti e 49. Gli dicevano tutti che era troppo basso e troppo leggero per poter diventare un peso massimo, si è ritirato all’età di 33 anni senza che nessuno sia mai riuscito a batterlo. Anche Michael Jordan da bambino pensava al baseball, poi, per fortuna ha deciso di dedicarsi a qualcos’altro. Durante le Olimpiadi di Barcellona del 1992, l’NBA decise di far gareggiare una squadra di giocatori professionisti e non più studenti universitari come era successo fino a quel momento. E quindi Larry Bird, Charles Barkley, Karl Moses. C’era anche Magic Johnson, che era tornato a giocare nonostante una diagnosi di sieropositività. Lo chiamarono Dream Team, improvvisamente il mondo intero si innamorò del basket. Chuck Daly, il loro allenatore, disse di non trovare nessun termine di paragone per quella squadra, poi però gli venne in mente: “Era come far suonare insieme i Beatles ed Elvis, il meglio del meglio”. A Barcellona gli americani non vinsero, stravinsero. Anche Michael Jordan faceva parte del dream team quell’anno.

 

Dal 1991, il giocatore dei Chicago Bulls vinse con la sua squadra 3 titoli consecutivi dell’NBA. Nel 1994 si ritirò per cominciare a giocare a baseball. Per fortuna durò soltanto un anno. Nel 1995 decise di ricominciare a giocare a basket: “I’m back” disse, sono tornato. Ricominciò anche a vincere. Ciò che impressionava di Jordan, però, non era tutto ciò che era riuscito a conquistare (sei titoli Nba e il premio di miglior marcatore e di miglior giocatore del campionato per dieci anni consecutivi se si esclude il 1994), ma il modo in cui vinceva, dominando completamente tutti gli altri. I suoi avversari non potevano fare altro che osservarlo ammirati. Un colonnello dell’aeronautica militare e alcuni professori di fisica, si stavano ponendo da qualche tempo la stessa domanda: “E’ possibile che Michael Jordan sia capace di volare?”. Era strano, ma a loro pareva di sì. Dall’altra parte dell’oceano, in quegli stessi anni, gareggiava anche un altro campione, che con Jordan non aveva praticamente niente in comune, se non un dettaglio: non perdeva mai.

 

Michael Schumacher nei primi anni 2000 ha dominato la Formula 1 con la sua Ferrari: 5 mondiali consecutivi tra il 2000 e il 2005 (due li aveva vinti in precedenza con la Benetton). Anche nel suo caso, gli altri quasi sempre rimanevano a guardare. Lo chiamavano il cannibale. Spesso, durante i Gran Premi, guidava solitario dall’inizio alla fine, senza neanche l’accenno di un sorpasso. “Almeno le piacciono i doppiaggi?”, gli chiesero nel 2004 e lui, con una specie di sorriso ammise di sì, gli piaceva doppiare tutti gli altri. “I suoi avversari hanno smesso di divertirsi, lo sa?”. “Ah sì? Io invece vorrei che questi anni non finissero mai.” 308 gran premi e 155 podi. Qualcuno l’aveva paragonato a Eddie Merckx, ma lui non sopportava i paragoni. Anche Merckx però era stato, molto prima di lui, un cannibale del ciclismo. Dal 1965 al 1978 vinse 5 Tour de France e 5 Giri d’Italia, per 77 volte vestì la maglia rosa: un record. Aveva un unico avversario, Felice Gimondi, che però contro di lui non vinceva mai. Era più forte Merckx o Fausto Coppi? A questa domanda il ciclista belga preferì non rispondere, i confronti a distanza non piacevano nemmeno a lui. Ci tenne però a precisare che la storia non si fa coi sentimenti, al massimo con le statistiche: Merckx aveva vinto 426 corse, nessun altro poteva dire lo stesso. Dopo di lui solo Lance Armstrong, a cui però fu revocata ogni vittoria.

 

Prima o poi avrebbero perso tutti almeno una volta. Eppure ci sono stati, e ci sono ancora per fortuna, campioni che non solo erano migliori rispetto a tutti gli altri, ma sembrava quasi che giocassero un altro sport. Lo sciatore Jan Ingemar Stenmarck e il nuotatore Michael Phelps, il portiere della Juventus Gianluigi Buffon, con il suo recente record di imbattibilità in serie A, il Grande Torino – sconfitto solo da una tragedia aerea – e poi il velocista Usain Bolt, che non sa neanche come sia fatta una medaglia d’argento. L’invincibilità non è di questo mondo, il Benfica di Eusebio, durante la stagione della serie A portoghese del ’72-’73 non perse nemmeno una partita: 58 punti su 60. Tra i tennisti, la divina Suzanne Lenglen e Martina Navratilova, che nel 1983 perse un solo match su 86. E poi Rod Laver, l’ultimo giocatore a vincere il Grande Slam, nel 1969.

 

Anche Novak Djokovic, 29 anni tra un mese, merita di stare in mezzo a questi record del mondo. Dalla prossima settimana, con l’inizio della stagione sulla terra rossa, giocherà a Montecarlo, a Roma e infine a Parigi, l’unico Slam che non è mai riuscito a vincere. L’anno scorso, dopo aver perso la finale del Roland Garros, cadde in una depressione alla quale non era abituato. Boris Becker provò a consolarlo, anche lui non aveva mai vinto il Roland Garros. Non c’era riuscito neanche Pete Sampras, il suo idolo di quando era bambino. A Djokovic però il passato non importa più. Non gli interessano Federer e Nadal, la loro eleganza e il loro cuore, e neanche gli applausi del pubblico, quasi sempre destinati ai suoi avversari. Una macchina da guerra. E’ così che si diventa il più forte giocatore del mondo. Non è il miglior tennista di tutti i tempi. Non lo diventerà mai, nonostante i 100 milioni e tutti gli altri record che è destinato a far saltare. L’invincibilità non è di questo mondo, vero, anzi, sacrosanto. Da un po’ di tempo, però, contro Djokovic non riesce più a vincere nessuno.

 

Djokovic, Miami 2016