Spostandosi sulle “Strade di San Francisco”, come si chiamava il telefilm con un giovane Michael Douglas, oggi si scorrazzerebbe soprattutto con Uber Pool

Sulle strade di San Francisco

La vita nuova della baia dove tutto è app e tutto è social

Michele Masneri
L’auto che si guiderà da sola, Zuckerberg e Facebook, i miliardari e le professioni che non c’erano. Miracolo californiano: la città, mai così al centro del business, ha soppiantato New York come “hub d’America”

Chi si perde, prima o poi si ritrova a San Francisco”, scriveva Oscar Wilde, ma perdersi a San Francisco capitale della neo-neo new economy è impossibile, a meno che non ti si scarichi lo smartphone. Tutto infatti nella capitalina californiana è ormai fatto su app, e spostandoti sulle “Strade di San Francisco”, come si chiamava l’antico telefilm con Michael Douglas, oggi si scorrazzerebbe soprattutto con Uber Pool, derivato del celebre sistema che imbruttisce i taxisti, ma qui causa soprattutto incontri sociologici e piacevoli: si prenota con la app, si sceglie la soluzione di gruppo, e arriverà la Toyota Prius regolarmente ibrida a prendervi, con su, a seconda degli orari, campioni di popolazione da osservare e amare. La mattina alle dieci ecco segretarie con caffettone bollente in mano che compulsano i loro smartphone ansiose di andare in ufficio; la notte, piacevoli discotecari strafatti di sostanze con pelliccette e magliettine che escono da locali dei più fantasiosi, e si torna a casa tutti insieme. Fuori dalle discoteche peccaminose e non, è tutto un “è la sua, di Prius?”, un “sorry, mi son seduto nell’ibrida sbagliata”, mentre i più hipster già alzano il sopracciglio per Uber e preferiscono Lyft, compagnia concorrente che è diventata famosa con un gran baffone di peluche su cofani e radiatori e adesso imborghesita, con un piccolo baffetto da sparviero luminescente in cabina. General Motors vi ha appena investito 500 milioni di dollari e “riteniamo che ci saranno più cambiamenti nella mobilità nei prossimi cinque anni di quanti non ce ne siano stati negli ultimi cinquanta” ha dichiarato il presidente di Gm, Daniel Ammann, annunciando l’accordo. L’obiettivo è chiaramente l’auto che si guida da sola, e si farà qui, in California.

 

Era dall’Ottocento che San Francisco non era così al centro del business: città della controcultura, della beat generation, della frontiera, degli hippie, della rivoluzione gay. Ora anche capitale degli affari. Si era partiti con la sensazione che con tassi di interesse al rialzo e crisi cinese anche l’ultima delle bolle americane fosse finita, mentre invece qui “the next big thing” è già pronta, è la self driving car, l’auto che si guida da sola e che qui sta nascendo, creando la prossima rivoluzione industriale, mettendo insieme “vecchi” del manifatturiero come Ford e start-up già gigantiche come Uber e Lyft; e poi Tesla, la macchinona elettrica di lusso dell’imprenditore immaginifico Elon Musk, quello che studia i treni sparati come capsule: tutti insieme a cercare di capire come sarà questa auto del futuro, da dove si partirà, in città, nei parcheggi?

 

Mentre il futuro è già qui, non fa paura, e depressione in giro zero. La storica compagnia di taxi “Yellow cab” ha fatto amabilmente fallimento, senza proteste e senza barricate, forse indebitata e forse non per colpa solo del car sharing, ma con la sana consapevolezza californiana un po’ buddista di aver scelto il lato sbagliato della storia e del business, e insomma d’essere come chi investiva sul cinema muto proprio mentre diventava sonoro. T’ha detto male, non è colpa del neoliberismo. Non cercando di conservare anziani posti di lavoro ma fiutando anche altri introiti, tipo museali: ormai i rarissimi taxi paiono pezzi da museo, da fotografare, fanno tenerezza, forse verranno riconvertiti in attrazione turistica come già i vecchi tram che qui non si nascondono con orride bardature pubblicitarie ma vengono tirati a lucido, c’è anche quello milanese con le sue scritte in italiano sulla linea F.

 

Del resto, tanti legami con l’Italia: a parte il santo di riferimento, il fondatore della più antica banca, la Bank of America, Pietro Giannini, qui eroe cittadino e regionale, e altri eroi più recenti, tipo Larry Sonsini, italiano anzi romano, avvocato d’affari che ha portato in Borsa Google e Apple. E il più invidiato di tutti, il capo della finanza di Apple Luca Maestri, romano pure lui, che guadagna ben più del suo boss Tim Cook. Tanti aspiranti: sono 100 le start-up italiane che operano qui, ma tenendo la ricerca in Italia perché siamo più qualificati e i nostri ingegneri costano meno, ce l’ha spiegato il giovane e dinamico console d’Italia, Mauro Battocchi. Oggi poi il ministero dell’Istruzione lancia un progetto che si chiama “Go for It”, un semestre di stage per laureandi e dottorandi italiani nelle aziende della Silicon Valley (anche se non si sa come arriveranno, perché mentre l’Alitalia apre nuove rotte su Santiago del Cile, siamo l’unico paese del G8 a non avere un volo diretto). Tanti languori antichi verso un’Italia mitica, classica: “Imperial Rome on Seven Hills, imperial San Francisco from her hundred Hills”, attacca un poema di Robert Braden del 1899 a celebrare i cento colli di questa capitale sorta sulla frontiera delle miniere e dei baron robbers, imprenditori delle ferrovie e delle ferriere che portarono la civilità neoliberista qui al West. Oggi però da Roma è più facile esportare la gastronomia che l’economia, ed ecco al Financial Center, nel quartiere dei grattacieli, una “pinseria Montesacro”, fondata da Gianluca Legrottaglie, da Centocelle, a riscoprire una antenata della pizza, focaccia bassa forse già usata come cibo del dio Aniene, e qui chiamata pasolinianamente la Corviale, la Infernetto, la Maranella, e naturalmente la Pigneto. Mentre a Mission, una specie di Pigneto di San Francisco, quartiere già di latinos, con pregevoli affreschi e piante grasse e barbieri per cofane non hipster, ha preso casa Mark Zuckerberg. Comprando una tipica villetta in legno per dieci milioni di dollari il padrone di Facebook ha dato il colpo di grazia finale alla gentrification della città, coi prezzi immobiliari saliti del 67 per cento in quattro anni. Il valore medio di un’abitazione è passato dai 670 mila dollari del 2012 al milione e 120 mila di oggi, il più alto d’America e il triplo della media nazionale.

 

I prezzi delle case nella baia sono saliti infatti più dell’ultima grande bolla, quella delle dot com del 2000, ed effettivamente per acquistare una delle graziose casette in legno che rendono la città una di quelle a minor densità del mondo (la metà circa di abitanti per chilometro quadrato di New York), oltre che la più infiammabile, servono almeno un paio di milioni di dollari. Qui a Mission, gli startupper sono accorsi negli ultimi dieci anni a far esplodere i prezzi, generando anche cortocircuiti. Così la villetta comprata da Zuckerberg su Dolores Street, con due anni di lavori non ancora terminati, ha fatto imbestialire i vicini del ceto medio riflessivo. Hanno dato fastidio in particolare la posa dei cavi di fibra ottica per cablare l’edificio, le aggiunte di una lavanderia, una “media room”, dei garage, e una mitologica unità di servizi segreti o guardie private che sorveglierebbe il cantiere ventiquattr’ore su ventiquattro, anche per nuovi allarmi su psicopatici e stalker all’inseguimento del fondatore del social dove essi allignano. In realtà avvicinandosi ai muri tra la Ventunesima e Dolores, non paiono esserci sventramenti né si vedono unità di corpi speciali; certo incuriosisce la villetta che sarà prossimo set dell’ormai consolidato “Casa Zuckerberg”, reality show tipo “Casa Vianello”, con annunci di nascite e bagnetti e vaccinazioni e perché no cacche e pipì, e calendari lunari e cinesi.

 

Zuckerberg, forse inconsapevolmente, si inserisce in un filone di tycoon molto liberali in una città di grandi magnati. E’ la città degli Hearst, padroni delle miniere d’oro poi editori con William Randolph che ispirò il Citizen Kane di “Quarto potere” (mentre la famiglia, passata indenne per Patty Hearst, terrorista smandrappata con l’esercito simbionese, possiede ancora un impero dei media, da Cosmopolitan a Elle a Espn). E’ la città di grandi dame di carità, la più famosa è Dede Wilsey, figlia di un ex capo protocollo della Casa Bianca, sposatrice seriale di milionari, che nel 2005 ha raccolto 190 milioni di dollari per la sede del nuovo De Young Museum nel Golden Gate Park: opera somma degli architetti svizzeri Herzog e De Meuron, con grande torre sghemba ad ammirare la baia e un uso modernissimo del cemento e del rame ossidato e traforato tipo grande scolapasta, come poi già ai Fünf Höfe di Monaco di Baviera degli stessi archistar. E proprio di fronte alla California Academy of Sciences, gran padiglione metallico con squali e serpenti e pinguini per bambini, opera di Renzo Piano del tutto identica alla sede del Sole 24 Ore di viale Monterosa a Milano, ma piena di meduse e ricci e scorfani come in una pescheria milanese fornitissima. Ma, come ci racconta una dama, San Francisco rischiava di avere due musei di Renzo Piano uno di fronte all’altro, perché la sciura Wilsey amava molto l’architetto genovese, per averlo visto in effigie su un Ad o Vanity Fair, e dunque si mise i migliori brillanti, prese un suo consulente artistico, lo caricò sul suo aereo privato e partì per Basilea dove il non ancora senatore a vita si trovava. I due americani vengono introdotti alla presenza, ma il genovese non fa abbastanza salamelecchi e anzi viene trovato molto malmostoso e ligure dalla dama, che se ne va indignata come nel migliore “lei non sa chi sono io”. Ma prima di risalire sul Gulfstream si era sparsa la voce della dama in città, e questi Herzog e De Meuron molto più scaltri la ricoprono di baciamano e signorilità europea, e l’appalto passa subito a loro (meno male). Adesso questo grande manufatto arrugginito e fiero come un fortino del Far West dei Playmobil che avevamo da piccoli ospita soprattutto opere nuovissime di David Hockney chiaramente fatte “con la mano sinistra”, nature morte multimediali e boschi ripresi con l’iPad e una grande collezione permanente Rockefeller che sembra soprattutto composta da fondi di magazzino, tipo svuotacantine, tanti quadri fondo-oro di maestri tipo Teomondo Scrofalo ottocenteschi con mari in tempesta e sceriffi, però molto utili per capire cambiamenti sociali, gruppi di famiglia con schiavi negri proprio mentre sta per scoppiare la guerra civile da queste parti. Stemmi nobiliari finti, ritratti di antenati immaginari, bastoni da passeggio, camini, navi a vapore tipo “Via col vento” coi comignoli. Tanti complessi verso l’Europa. Sotto, nel basement, una fondamentale mostra sulla Panama-Pacific International Exposition, il grande Expo del 1906 che lanciò San Francisco fino ad allora città molto parvenue e con grandi complessi invece rispetto alla costa est. Dunque ricercando tutte le migliori star anche internazionali (tanti Munch e Marinetti, che pure aveva giurato di mai più esporre in America dopo maltrattamenti subiti da un gallerista).

 


Tutti contenti in questo miracolo californiano basato su cultura hippie, un sinistrismo che non ha mai portato alla P38, controcultura, droghe libere ma con juicio


 

Oggi, invece, nessun complesso, anzi. Secondo l’Economist “il posto dove si fanno le grandi operazioni”, “l’hub d’America” non è più New York ma San Francisco, grazie ai nuovi startupper ciavattari che non saranno chic come i De Young dell’omonimo museo, rivali storici degli Hearst, ma donano senz’altro di più, meno in musei e più nel debellare malattie e epidemie. Così ecco che il più grande ospedale della città, già San Francisco General Hospital, a novembre cambia prontamente nome in “Zuckerberg San Francisco” dopo la donazione di 75 milioni di dollari del fondatore di Facebook; era l’ospedale in cui lavora la moglie cinese, la dottoressa Priscilla Chan, pediatra, e come in un film di Pozzetto, arriva il marito e le dice: “Te lo compro, il tuo ospedale”.

 

Però questi nuovi billionaires ciavattari normalmente rimanevano a Palo Alto e non si addentravano in città, restando interurbani per dirla alla Totò, mentre ora hanno scelto di andare a vivere intra muros come la famiglia di “Inside Out”. Facebook ha generato da sola un centinaio di miliardari che si aggirano anonimamente con le crocs, e il nerd che beve il suon caffettone americano compulsando il Mac di fronte a te vale forse due o tre Fca. E il collocamento di Twitter tre anni fa ha generato in un colpo solo 1.600 milionari che qui si aggirano e comprano e fanno salire i prezzi al metro quadro. E non che la prima bolla delle dotcom non avesse portato miliardari: ma una concentrazione del genere non si era mai vista, e gli effetti si vedono sui quartieri. SoMa, South of Market, zona di capannoni e magazzini tipo via Tiburtina, è oggi tutto un fiorire di loft e torrefazioni di caffé per clienti barbuti, e gli uffici di Twitter e Dropbox grazie agli sgravi fiscali concessi dal sindaco sinoamericani Lee per rivitalizzare il quartiere. Mentre a Financial Center, nello stesso palazzo, Uber e Yelp e Airbnb, e insomma al centro della “sharing economy” che tira e cambia le nostre vite. Con condivisioni diverse, un tempo: un vecchio signore, a cena: “Ricordo quando abbiamo comprato casa qui, negli anni Ottanta, e l’abbiamo pagata centomila dollari. Avevamo i polli del vicino ristoratore cinese in giardino. Adesso vale due milioni”, e non ci sono più polli.

 

Per mangiare al ristorante, invece, come per tutto, si prenota solo via app, arrivare all’ultimo non se ne parla nemmeno ma anche se ti presenti di persona o telefoni ore prima sei visto come un eccentrico, e la hostess ti dice: “Il primo tavolo è disponibile tra due ore e quarantuno minuti”, e tu hai un bel rispondere “cioè a che ora?”, lei sbufferà e guarderà la sua app. Tutto è app e tutto è social, perfino andare dal parrucchiere. E c’è la Facebook pilifera – si chiama StyleSeat, anche lì ti iscrivi solo con la app, e poi ti presenti nel salone di bellezza dove naturalmente non c’è un proprietario ma sono tutti freelance e lavorano in coworking affittando ciascuno la loro poltroncina, dunque in feroce concorrenza l’uno con l’altro, situazione che li rende spesso nervosi; i parrucchieri social di San Francisco hanno tariffe mostruose, ho accompagnato un’amica, taglio e tinta 245 dollari, e il parrucchiere non solo ha sbagliato colore ma forse stremato dalla concorrenza e dalla vita di startupper del capello stava sbroccando dal nervoso quando non sapendo i termini tecnici di “scalare” e “frangia” si tentava di tradurre un po’ così a braccio. Ma prima di sederti sulla poltroncina, ti chiedono di compilare un modulo con mail e indirizzi e contatti, così tu potrai recensire loro e loro te, socializzando il risultato su Facebook e Twitter, e comunque venendo perseguitati per sempre dalle loro mail. Mentre sempre a Mission, il quartiere più gentrificato, ecco barberie di hipsterismo estremo, con una catena Fellow che apre solo in distretti ad alta densità di barbuti (il primo è a Williamsburg) con barbiere (nel senso di femminile plurale) molto tatuate anche lì prenotabili solo online (però se vai di persona ti sorridono, “walk ins welcome”, se ti affacci anche tu materialmente e non il tuo alias digitale non ti imbruttiscono), su vecchie poltroncione e boiserie e specchi, e culti anche esagerati per creme Prep e pennellini e schiumette. La catena ha già 100 dipendenti e cercano barbieri/e, ovviamente online. Qualunque negozio-bar-locale cerca giovani da assumere, in una crescita che pare infinita, anche con margini folli: il cornetto, quattro dollari e sessanta.

 

Però anche tante nuove professioni, anche “old”: tutta la città sta “a rota” di consegne con Amazon Prime Now, che ti porta dalla lavastoviglie agli involtini primavera a casa in un’ora, dunque sorge tutto un problema anche logistico dei pacchi che arrivano a casa, e spesso in mancanza di concierge pacchi e paccottiglie vengono rubati (con conseguente probabile nuova bolla di una professione antica come il portinaio). I librai però si sono adattati benissimo alla crisi, e invece delle librerie supermercato tipo Feltrinelli, dove spesso il commesso è meno arguto dell’algoritmo Amazon, si buttano su scelte eccentriche e di fascia altissima sfruttando anche bovarismi di startupper in cerca di legittimazione culturale. Ecco dunque non solo la storica City Lights già cara a Ferlinghetti ma, a Mission, Dog Eared Books, con interni in legno chiaro, musica anni Settanta, reparti su femminismi e gender e prime edizioni di Capote, e una nuova moda qui sulla costa ovest, i manualetti di bon ton tipo “Galateo della fanciulla” che qui si vendono assai, molto comprati da nerd con occhiali dalla montatura spessa che affollano poi baretti in cui ognuno è seduto di fronte al proprio Mac, e forse inviterà a cena con la dovuta etichetta il suo computer, che gli risponderà con voce digitale tipo “Her”.

 

[**Video_box_2**]Nicchie, nicchie, con margini altissimi. Il più scaltro di tutti è lo scrittore Dave Eggers, probabilmente il più sopravvalutato degli anni Novanta: ha fondato una magnifica libreria-negozio che tratta solo di pirati; dunque ecco uncini, sabbia di varie spiagge, portachiavi a forma di cannocchiale, bussole, monete finte, cartoline con ancore, tutto di grandissimo successo, e nello stesso edificio (826 Valencia) ospita anche la sua rivista culturale, McSweeney’s, oltre a una scuola per bambini disagiati della baia – “demistificare il processo dell’insegnamento, creando magnifici libri, giornali, riviste, vogliamo ispirare i ragazzi a ottenere pensiero critico e scrivere con fiducia di sé”, dice il manifesto della scuola.

 

Tutti contenti, in questo miracolo californiano basato su cultura hippie, un sinistrismo che non ha mai portato alle P38 ma alla joie de vivre, droghe libere ma con juicio (per prendere la marijuana serve la tessera sanitaria, tutti la portano in tasca), e poi controcultura, beat generation che ha generato non bamboccioni pigneti ma ingegneri che brevettano e fanno fatturati, e contravveleni al male di vivere; e oggi un turboliberismo che passa anche da sotto la cintura, ecco questa “prep”, i primi giorni non si capiva, si pensava alla solita schiuma da barba, persi nella foresta di acronimi sui siti e sitini e i barbieri, per scoprire invece che “I’m on Prep” non significa un feticismo per attrezzi da barberia bensì la fondamentale terapia preventiva anti-Aids che semplicemente sconfigge il virus; costa tanto, ma la passano le assicurazioni, e ogni ragazzo accorto qui se la fa prescrivere; è frutto di mega ricerche costosissime però a chilometri zero, del colosso Gilead Sciences che sta qui a San Mateo, mezz’ora di macchina, e fa i miliardi. Ha efficacia del 100 per cento, e sta portando a una nuova rivoluzione sessuale, chiudendo per sempre l’epoca degli spauracchi lugubri dell’Aids; riproponendo un poliamore diffuso molto coerente con lo spirito dei padri fondatori hippie. Dunque tante profferte, su siti e sitini e app di incontri, e anche nei bar, in questa libertà generale, per farlo spesso almeno in tre o quattro. Un nuovo riflusso, eccolo, un nuovo grande amore universale in questa civiltà californiana che rinasce ancora una volta, avendo fatto sì il ’68, ma in definitiva preferendo – arbasinianamente – il 69.