Una scena di “Suburra”, il film di Stefano Sollima tratto dal romanzo del giornalista Carlo Bonini e del magistrato Giancarlo De Cataldo

Al giudice piace il giallo

Salvatore Merlo
Tribunale che vai scrittore che trovi. Da Carofiglio a De Cataldo, non si contano i magistrati prestati alla letteratura. Le indagini nella realtà zoppicano, ma nella fiction tutto si risolve. Un mercato che vale 70 milioni di euro di fatturato. Scrivono anche i poliziotti. “L’uomo italiano purtroppo si vuole esprimere”.

La dimensione letteraria e la dimensione giudiziaria, due fiamme che si compenetrano per ardere unite. “Leggo di Mafia Capitale, osservo le prime immagini di questo processo così suggestivo, e sempre più mi chiedo se per caso non si sia scatenato un meccanismo di osmosi alla rovescia”, dice per esempio Emanuele Trevi, con il tono dello scrittore che coltiva il dubbio, complessa e non sempre vantaggiosa ginnastica di libertà. “Di solito è la realtà giudiziaria che influenza la letteratura poliziesca. Ma nel caso di Mafia Capitale, con questa parola così evocativa, ‘mafia’, applicata alla criminalità becera e un po’ spavalda di Roma, all’universo dei grassatori e dei cravattari della suburra, mi chiedo se il procedimento non si sia rovesciato: se cioè non sia la letteratura noir a influenzare la realtà”. Il punto di vista è interessante perché come scrisse Carlo Ginzburg in “Miti emblemi spie”, il conoscitore d’arte, in questo caso lo scrittore, “è paragonabile al detective che scopre l’autore del delitto sulla base di indizi impercettibili ai più”. E allora è forse necessario chiedersi se ci sia un collegamento tra questa suggestione e il fatto che l’Italia pulluli di magistrati, e persino di poliziotti, che scrivono romanzi gialli, che si abbandonano a stupori e riti letterari capaci di attrarre con un fascino proporzionale alla loro verosimile irrealtà. Giancarlo De Cataldo e il romanzo criminale, e poi Gianrico Carofiglio, Domenico Cacòpardo, ma anche i meno noti Targetti, Cannevale, Sottani, Simoni, Stefani, Caringella, dunque il magistrato dell’omicidio Ambrosoli e delle indagini del caso Sindona, e poi il giudice che firmò il mandato di cattura nei confronti di Craxi, fino a Fiorenza Giorgi, il giudice del caso Tirreno power, lei che ha dato alle stampe due libri in pochi anni, ovviamente noir, s’intitolano “La sala nera” e “Morte al Chiabrera”.

 

Nel paese che fa l’altalena processuale intorno a Raffaele Sollecito e Amanda Knox, nell’Italia in cui la verità giudiziaria non esiste e nemmeno le sentenze sono definitive, come a Ustica così a Capaci, come per l’affaire Moro così per la morte del bandito Giuliano, dall’omicidio di Yara Gambirasio ai presunti mandanti del mostro di Firenze, fino ai dubbi su Cogne e Anna Maria Franzoni, molti poliziotti e molti magistrati si consegnano alla letteratura. E non c’è paese al mondo in cui vengano scritti così tanti gialli come in Italia, e non c’è altro paese al mondo che veda gli operatori della giustizia così coinvolti nel destino delle patrie lettere (è anche difficile venire a capo del paradosso per cui l’Italia pullula di magistrati-scrittori mentre il paese nel suo insieme detesta la lettura). “Avete mai provato a fare un rapido calcolo mentale di quanti polizieschi vengono scritti nel nostro paese?”, si chiede con allarme Alfonso Berardinelli, uno tra i più autorevoli, severi (e spigliati) critici letterari d’Italia. Risposta: il mercato dei gialli e dei thriller non tascabili, nel 2014, valeva quasi settanta milioni di euro di fatturato, quattro milioni e ottocentomila copie. La metà, all’incirca, sono quelli dei magistrati-scrittori. Ma perché? “Perché l’uomo italiano è uomo espressivo. Purtroppo si vuole esprimere”, dice Berardinelli con ironia, “non sta mai dentro i limiti della professionalità. Il nostro è un paese di narcisismi specifici. E poi i magistrati sono diventati delle stelle, come i calciatori, come i grandi giornalisti della tivù, e sono ricercati dagli editori”. E Trevi: “Il giallo domina la letteratura perché tutti noi siamo profondamente consolati dall’idea che nella vita ci sia ordine, che tutto sia logico, collegato, spiegabile e che insomma esistano complotti, regie occulte cui tutto si può legare. Nel giallo tutto si tiene. Così nel romanzo criminale di De Cataldo, come nella Mafia Capitale del procuratore Pignatone, che secondo me ha caratteristiche romanzesche”.

 

E il fenomeno ha incuriosito persino gli accademici, ha accelerato il metabolismo dei professori universitari, degli storici della letteratura, dei filologi e dei linguisti. Nell’ultimo numero del “Bollettino di italianistica”, rivista specializzata dell’università La Sapienza, sulle cui pagine scrivono Tullio De Mauro e Zygmunt Baranski, è comparso un saggio intitolato “Il Rasoio di Occam e i magistrati scrittori di noir”, di Elisabetta Mondello: “Dalla seconda metà degli anni Novanta in poi si affacciano nel mercato editoriale della giallistica e si professionalizzano nuovi soggetti ‘interni’ al mondo che rappresentano, in quanto amministratori della giustizia. L’elenco è lungo e destinato ad aumentare. Si è persino andato creando un sub genere, interno al noir o al romanzo di detection, che trova modalità espressive comuni dovute all’avere come autore un magistrato”. E ovviamente anche per questi autori esiste la paccottiglia dei premi letterari, quelli che secondo Longanesi non bastava rifiutarli ma bisognava anche non meritarli: “premio gran giallo città di Cattolica”, “Garfagnana in giallo”, “premio Azzeccagarbugli”, “nebbia gialla”, “giallo all’italiana”, fino al singolarissimo “premio letterario scrittori della giustizia”, che viene assegnato a Roma, in un circolo canottieri, premio – attenzione, anche di narrativa – la cui giuria è composta da magistrati e avvocati, qualche universitario, ed è presieduta dall’avvocato generale della Suprema Corte di Cassazione (che si chiama “avvocato”, ma è il vice del procuratore generale).

 

Obbedienti alla potenza, ma chissà, anche alla precarietà di una moda, sembra che non ci siano poliziotti, giudici o ex giudici, funzionari di stato e di prefettura che in Italia non abbiano nel cassetto un romanzo giallo – anche Carlo Nordio ne ha scritto uno, ma storico, sulla battaglia delle Ardenne, mentre Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, ha sceneggiato le sanguinose vicende della ’ndrangheta calabrese. Persino l’ex capo della polizia, il defunto e compianto Antonio Manganelli, ha pubblicato un giallo postumo. E per qualche tempo nelle librerie si sono potuti trovare i thriller di Michele Giuttari, l’ex capo della mobile di Firenze, l’uomo delle indagini – molto discusse – sul mostro. Ed ecco in che modo si viene componendo sotto i nostri occhi, stupendamente monocromo, il mosaico. E’ come se aleggiasse su tutti loro l’antica maledizione di Amintore Fanfani, che non vedeva se stesso come capo politico, presidente del Consiglio, capo corrente della Dc, ma che – ahinoi – si vide sempre e soltanto come pittore. Ma il modello letterario può davvero finire con l’influenzare la realtà? “I libri gialli sono delle grandissime compensazioni, rassicurano perché riconducono tutto a una spiegazione. Sono il contrario di Becket e di Kafka, che sono invece l’assurdo. Il modello letterario del noir impone sempre la ricerca di un ‘secondo livello’ soggiacente alla realtà dei fatti. Nel noir ci sono sempre una ‘realtà apparente’ e una ‘realtà nascosta’, da svelare”, dice Trevi.

 

Eppure, come non si può non riconoscere che un ingegnere quale era Carlo Emilio Gadda abbia saputo giocare con il linguaggio, scombinare e ricombinare parole da sublime e geometrico creatore di strutture narrative, così non si può ovviamente negare ai magistrati la possibilità di scrivere, se sanno farlo. “E il magistrato, per il lavoro che fa, occupa una posizione privilegiata, a stretto contatto con l’umanità, un po’ come il barbiere, se vogliamo: cosa non potrebbe scrivere un barbiere laureato e forte di studi classici!”, dice Francesco Anzelmo, editor e direttore editoriale della saggistica Mondadori, lui che i magistrati-scrittori li pubblica e li apprezza. Ma c’è anche devianza, deriva “piritolla”, direbbe Pietrangelo Buttafuoco. E un magistrato come Dante Troisi, autore negli anni Cinquanta di “Diario di un giudice”, uomo dell’altro secolo che certo mai raggiunse il successo commerciale delle canzonette di Sanremo (o dei libri di Carofiglio e di De Cataldo), lui che abituò gli italiani alla jam session della scrittura, a un registro in cui si affermava l’impegno professionale e civile del giudice sotto la specie di un affetto tormentato, ombroso e severo per la professione, appartiene ormai a un umanesimo desueto. “Sospetto di essere strumento di vendetta, a volte della vendetta di un uomo contro un altro uomo, a volte del cosiddetto stato contro il resto degli uomini, inermi”, scriveva Troisi. Oppure: “Ho paura che i miei figli abbiano sangue guasto; alterato dagli errori, dalle condanne, forse anche dalle assoluzioni. Vi penso con vero terrore”. E sono le parole di un uomo di spirito allenato all’understatement, un magistrato che fa letteratura e un letterato che fa il magistrato, in punta di coscienza personale e di rigore civile, con ricchezza e complessità sentimentale. Non c’è l’affollamento dei luoghi comuni, la mitificazione e mistificazione, la pretesa del disvelamento e il gusto del mistero. Ma una dimensione intimistica e tormentata. Lo stile è legato alla descrizione di un ambiente, quello giudiziario, e di un fenomeno, non alla spettacolarizzazione del poliziesco, un po’ finzione e un po’ realtà, del giallo e del noir “che oggi sono dei fogliettoni con connotati e accenti socio-politici”, come dice Anzelmo, “storie che intrattengono ma che contemporaneamente hanno anche l’ambizione di svelare. E forse per questo – aggiunge l’editor di Mondadori – in molti casi sono i magistrati a scriverle, queste storie. Poiché in Italia, e non da oggi, i magistrati sono accreditati come gli interpreti della realtà”.

 

Ma forse, come spiegano i librai e i distributori, la questione si risolve tutta nella crisi del mercato librario. Si è ristretta la clientela, ci sono meno acquirenti: comprano solo le signore o chi cerca nel libro un appagamento per la propria coscienza pulita, una parvenza d’impegno civile e dunque s’identifica col feticcio. Il lettore non cerca l’otium, ma l’identificazione, e dunque si specchia “nei libri dei magistrati, quelle star dalle quali, a differenza che dai calciatori, ti aspetti il rigore morale”, dice Berardinelli, con spietatezza di critico. Così a Catania, per esempio, il lettore comprerà il libro di Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Messina, quel saggio-romanzesco che s’intitola “Catania bene”: e il suo dovere l’avrà fatto.

 

[**Video_box_2**]E più è pittoresco e remoto il luogo di provenienza dell’autore, il fondale su cui si proietta il racconto, come la Puglia di Carofiglio e di De Cataldo, più il meccanismo funziona, con la stereotipata ma ben orchestrata descrizione di un sud (o di una Roma) di desolata e astratta bellezza, spagnolesco e bestiale (la carne di cavallo tra i denti in via Plebiscito a Catania), tutti cardini sicuri di un fascino dove regnano le stranezze di un meridione selvaggio eppure europeo, espresso con disinibizione consumata, un’elegia che talvolta si degrada in bozzetto, eppure va, come succede alla potenza terragna della Calabria, a quella malìa ancestrale di capretti sgozzati che nei libri del giudice Gratteri si spalanca sulle luminose vetrate dei grattacieli di Milano: una scenografia capace d’eccitare gli abilissimi editor che molti di questi autori hanno alle spalle, loro che vanno a trovarli, osservano, spesso riscrivono e sempre tendono l’orecchio ai racconti dei loro autori, con la stessa affascinata inquietudine con la quale nel “Gattopardo” il piemontese Chevalley ascoltava dalla voce di Tancredi le truci e macabre storielle di Sicilia, quella del baronetto rapito e restituito a rate “pezzo per pezzo” o quella del parroco avvelenato col vino della comunione. E più Tancredi raccontava, più Chevalley “cominciava a fremere e a domandare”.

 

Da qui deriva, da questo illustre antefatto, chissà, il fiorire di fiction, questo cortocircuito mirabile – anche i Ris ci sono cascati, anche i carabinieri che nella triste vicenda di Yara Gambirasio hanno prodotto e consegnato ai giornalisti un falso video che inchiodava il presunto omicida. Tutta una rappresentazione scenica, tutta una fiction. E così pure nella Roma “der Cecato”, “der Forfora” e “der Miliardario”, non si capisce più dove inizi l’indagine e finisca la letteratura, come dice Emanuele Trevi. “Pignatone, che è un bravissimo magistrato e aveva tutte le carte in mano per fare una grande e necessaria inchiesta su una pericolosa associazione criminale, ha fatto invece qualcosa che pertiene più al romanzo giallo che al meccanismo istruttorio, ha dato unità a quello che Calvino chiamava ‘il labirinto’, cioè alla complessità e alla molteplicità di fenomeni che non stanno insieme, al caos fenomenico: lo chiama mafia e compie quasi un’operazione artistica”. Che nel racconto pubblico diventa una fabula mirabile, ma senza cosche, senza tritolo, senza omicidi, senza teste di cavallo, ma con la parola mafia – eccola – che sta alla letteratura italiana, al suo povero cinema e alla sua televisione flagellati dai gialli, come il fantasticoso western stava alla vecchia Hollywood. Minchia, la mafia!

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.