L’alba sugli scogli di Ventimiglia, in questi giorni. L’avanguardia dell’esodo. Sono vivi, raccontano la morte. Uno di loro, con le gambe e le piante dei piedi sfregiate dalle piaghe, chiama alla preg

L'odore della peste

Pietrangelo Buttafuoco
Dal mare di Ventimiglia alla stazione Termini, fino alla Tiburtina. Viaggio tra le puzze, il piscio e le paure degli italiani. Ma alla fine più che l’indignazione poté l’indifferenza.

Sebastiano è medico. Specialista di emergenza sanitaria. Sono le 7 del mattino e lui, parla con me al telefono, sta letteralmente “sbucciando, anzi, scartocciando un uomo accucciato tra gli scogli di Ventimiglia”.

 

E’ vivo o è morto? “E’ vivo”, mi dice Sebastiano. Sento nell’auricolare il rumore, come di un continuo graffiare, della coperta termica argentata. Si ode, in sottofondo, un indistinto muggito: come quello di un vitello.

 

E’ vivo o è morto? “E’ tutto occhi per lo spavento passato. E per quello da passare ancora”, mi racconta Sebastiano che – lo sento da Roma, dove mi trovo io – rumina a quel povero fuggiasco, piano piano, un conforto: “Salam, salam, salam…”. E lo ripete ancora: “Salam, salam, salam”.

 

Sono vivi, non sono morti. Non ci sono topi. Appena prima, sui siti dei giornali – ho guardato sull’i-pad – è circolata la foto: sono in tanti, quasi come tartarughe rinchiuse nei gusci dai riflessi metallici. Tutto un luccichio che a qualcuno, nell’alba ligure, trasfigura nel racconto di uno sbarco, certo, ma “di marziani”.

 

Sono vivi, raccontano la morte. E non ci sono topi. Sebastiano – trafficando con le fiale di creolina per sfumare il lordume intorno allo slargo – mi racconta la processione lenta e pudica delle abluzioni fatte negli incavi salati delle rocce.

 

La vita, dunque. Le feci che galleggiano, la schiuma che si sfascia con le onde, i lampeggianti di Francia sullo sfondo e uno di loro – un giovane uomo le cui gambe e le piante dei piedi sono sfregiati dalle piaghe – aveva trovato voce per chiamare alla preghiera: “Allah ’u akbar!”.

 

Sono già le 7.15 del mattino di lunedì scorso e questo, al telefono, è il racconto di Sebastiano. Specialista di chirurgia d’emergenza, Sebastiano è affiliato alla confraternita Rifâ’iyya, una tarîka i cui doveri di pietà non prevedono la dissimulazione e perciò ha già pregato con loro nella prima orazione dell’alba.

 

Tutta quella nidiata raccolta a Ventimiglia è l’avanguardia dell’esodo. E’ trascorsa la notte, è ormai pieno giorno e alle 7.23 – quando emergo dalle scale della metropolitana di Roma, fermata Termini – nello slargo antistante il parcheggio della stazione c’è il tanfo di urina a segnare la giornata d’Italia. Qui non c’è l’esodo, c’è il degrado ridotto a un’abitudine municipale. A furia di passare ogni giorno ci si assuefà a tutto. E io mi sono abituato: a chi meritoriamente si lava i denti alla fontanella, e figurarsi; a chi s’impiega nell’accattonaggio; a chi ancora sonnecchia tra i cartoni e sui cartoni – nottetempo inzuppati di vomito e pastina – s’avvolge ancora un poco prima che la luce diventi abbagliante.

 

La vita, quindi. E i topi. Uno l’ho visto. Ancora prima, appena fuori da casa, mi sono incamminato nel solco di un puzzo. E’ quello dell’immondizia che dilaga oltre il recinto di Villa Pamphili e le mura di Villa Carpegna, giusto alle spalle del quartiere Vaticano. Una specie di vichingo dal baffo austero, un omone la cui specialità è quella di nettare i fari alle automobili ai semafori per guadagnare spicci, si sbottona e si libera della sua stessa acqua. Eccolo. Da sotto il cassonetto scappa un topo.

 

Tutto glucosio che si libera nell’aria del mattino. Il vichingo non ha fatto neppure la fatica di una camminata pudica tra i cespugli – come fanno tra gli scogli, a Ventimiglia, quelli dell’esodo – e con gli occhi al cielo ha scelto il centro della piazza dove qualche demente, ogni mattina, sbriciola il pane per nutrire gli immondi piccioni che si meriterebbero di essere sbranati da gatti selvaggi, se mai ce ne fossero (invece sono tutti pasciuti i mici, castrati e inutili speculari a tutti noi, i bipedi).

 

Tutti corpi chetonici che galleggiano nell’azzurro del buongiorno. La scena mi resta addosso quando ormai sono arrivato a Termini. Sono le 7.34, a far da quinta all’azione c’è la statua di Giovanni Paolo II, e tutto un accampamento di anime morte prende vita incontro al far del giorno. Tutta una spremuta di reni dappertutto. Ci sarà pure l’odore dell’estate ma il naso avverte il miasma. Viene in mente il colonnello Kilgore, quello di “Apocalypse Now”, però a parafrasarlo: “Mi piace l’odore del piscio al mattino”. Chissà come sarà il napalm. Ma tutto questo, quest’olezzo di morbo, e me lo ripete Sebastiano salutandomi, non è l’esodo. “E’ la peste”.

 

Come la peste. Che non è la scabbia. Che se ne va via con una pomatina. Questa è, appunto, la peste che porta al voltapagina nel libro delle buone intenzioni e che si annuncia per tramite di latrina se dopo il mio lavoro a “Mix 24”, uscendo da piazza Indipendenza verso via Barberini, costeggiando la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri – la chiesa dove si celebrano i riti funebri dei militari – assisto incredulo a ciò che ritenevo fino a un istante prima una prerogativa dei maschi e non delle donne.

 

Come la peste. In una zona di Roma assolutamente centrale, non dunque in un non luogo del degrado periferico, una signora dall’aspetto propriamente laido, ahimè meritevole di disprezzo e non di sociologia, zompetta un po’ sul marciapiede e nel pieno giorno, alle 11.23, restando in piedi, a gambe leggermente aperte, scostando di poco le pittoresche gonne, la fa lì.
Come la peste. Che non è l’ebola. O chissà quale fantasmagoria di morbo improvviso. La signora appesta l’aria. E fa il comodo suo per come si deve nell’impellenza dei bisogni. Davanti a tutti. Fa l’agio suo accanto a quei tapini misteriosissimi che chiedono firme contro la droga. Lo fa mancando di poco lo scatto fotografico di una fila di giapponesi impietositi da cotanta povertà e fa plin plin mostrando un grugno neppure beffardo, ma indifferente. Da sotto il suo drappeggio scivola un rivolo.
Ogni peste ha il suo liquame. Nelle terre di mezzo dei passaggi epocali irrompe sempre, in scena – e nel panico diffuso più che dagli untori – qualcosa di guasto. Come il colera che decima la popolazione dell’appena defunto Regno delle Due Sicilie, dove ci si divideva tra chi pensava che il colera fosse conseguenza di una colonna d’aria malata e chi, complottista ante litteram, sosteneva l’esistenza di “una polpetta” opportunamente disciolta nelle fontane, negli acquedotti e nei pozzi per far morire le genti e così procurare spazio vitale al nuovo reame fatto di bancarottieri e assassini.

 

Tutto il liquame torna nella nebulizzazione derivata dalla suggestione. E piace da pazzi, allora, l’odore della minzione nel pieno giorno se nessuno – nemmeno io ci riesco – può dire pio quando, dopo aver fatto, la signora se ne torna ad accomodarsi all’ingresso della basilica, nello spicchio d’ombra, per chiedere l’elemosina. Figurarsi attendere l’arrivo della forza pubblica.
Come la peste, così è l’abitudine. Lei fa il famoso “comodo suo” e la pagina delle buone intenzioni – mentre il traffico si mostra elegante, nel rombo delle citycar – si sporca con la psicosi. Sembra che non si faccia altro che latrina in Italia – nel frattempo che l’esodo bussa ai confini – forse l’attenzione indotta non fa che confermare l’ossessione dell’incontinenza e una scena mai vista comincia a essere la più vista. Ed è la peste.

 

C’è la peste in Italia. A Milano, proverbialmente più efficiente, gli ampi vani della Stazione Centrale accolgono, con la disperazione pudica degli immigrati, filari d’irreprensibile contenimento di deiezioni e pipì.

 

C’è dunque la peste, ma è un’esagerazione retorica. La vera peste è la paura. Aspetto il notturno per Palermo e mi si avvicina – sono al binario 13 di Termini – un ragazzo di quelli finiti nel documentario sulla prostituzione e però non è esotico, troppo lunga a spiegarla con lo sfruttamento, mi parla in italiano e con sfacciato accento napoletano. Rotea la lingua e mi dice: “Vulite favurì?”.

 

E’ un esercizio retorico anche il raccontare tutto questo appestarsi sempre più in fretta tra le giornate e il tempo che fa. L’Italia dei pendolari abita l’incertezza del viaggio. I treni non sono mai in orario perché – sempre più spesso, e la notizia non finisce più in pagina – uomini e donne rubano il rame e le tratte regionali, senza condutture elettriche adeguate, affrontano l’intermittenza.

 

C’è la peste che prescinde dalle espressioni geografiche obbligate tra periferia, sottosviluppo e degrado. Perfino lungo il percorso tutto sommato di agio e benessere – quello che da Bologna porta a Parma, qualche settimana fa – avverto il via vai di non paganti in fuga dai controllori. Non sono ladri di biciclette solo perché affinano nel grugno un’aggressività degna di etologia più che di sociologia e nessun piccolo borghese – stretto nella propria insignificanza – sa cavarsi dalle scene ultimative, tipo: “Adesso avviso la Polizia, deve scendere alla prossima stazione”.

 

[**Video_box_2**]La peste fa ritrarre tutti nel proprio brodo. La scena si ripete ieri. Torno da Avellino in pullman e a Tiburtina, quasi a contrastare lo scenario futuribile della nuova stazione, un impiegato si sta sgolando per aver dovuto trattenere – senza che ne avesse forza, disposizioni e autorità – un non pagante. Ha significanza dunque, mettere mano al portafoglio, e pagare il biglietto, la multa e arrotondare anche con un’elemosina e così disinnescare la percezione di disagio nel bel mezzo delle buone intenzioni? Non metto mano a niente e – piccolo borghese quale sono – colgo nello sguardo del bigliettaio lo sgomento di un andazzo cui non sa più opporre ruolo o dovere. O machete.

 

La peste ci fa inermi. Osservo la processione dei sorci radenti i marciapiedi del piazzale di soste dei bus. Lo faccio per attenzione indotta, certo. Ma lo faccio anche per non avere più nelle orecchie il mantra “Adesso aspettiamo la Polizia, doveva scendere nell’altra stazione e lì farsi identificare”. Mi volto dall’altra parte, forse è pudore, ma magari è vergogna e una telefonata mi salva dall’imbarazzo.

 

La peste sa come intrattenere. Gianluca, da Pozzallo, chiede però di scrivere, di dire, di far sapere che non ce n’è più di pietà se poi – nel cortocircuito di emergenza e sicurezza – quattro naufraghi raccolti in mare, arrivati al centro di accoglienza, accusano la polizia italiana di tortura. Non sarà vero, “non è affatto vero” mi dice mentre pure giugno se ne sta andando e Ramadan, appena iniziato, impone la verità. A tutti i costi la verità. Ed ecco che nella parentesi di peste, torna l’esodo. E torna la vita. Che non è quella dei topi.

 

Torna l’esodo. Mi colpisce la carambola che da Ventimiglia con Sebastiano, da Pozzallo con Gianluca, mi sembra di raccogliere adesso che me ne sto sul bus che sale verso l’Aurelia dove, tornando a casa, attaccato alla telefonata, dai confini opposti – dalla Liguria al sud della Sicilia – la carambola si descrive nell’arrivo della stessa marea.

 

Non sono topi, sono l’umanità. La vita, dunque. Ma c’è la peste. E non sapendo come cavarmela da monatto, ecco, mi ritrovo appestato. Ascolto i racconti di Gianluca, tutti terribili. Ho già digerito la scena delle piaghe nelle cosce e nella pianta dei piedi del ragazzo prosternato in preghiera a Ventimiglia. Ho anche gustato, masticato e inghiottito il dattero in viaggio, al momento esatto del passaggio tra la luce e il buio e detto “amin!”. E malgrado ciò, dopo, a casa, riesco a dormire. E’ questa la peste. Sprofondare nel cuscino.

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  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.