Dalla Troia omerica all'Ungheria d'oggi, che cosa significa costruire un muro protettivo, e perché è destino che crolli

Alessandro Giuli
Fortunato quel popolo che non ha bisogno di mura per difendersi dall’incognito. Ma dov’è questo popolo? L’Ungheria non ha meno diritti all’autoprotezione della Grecia, di Israele, del Messico e, chissà un domani, dell’Italia.

Fortunato quel popolo che non ha bisogno di mura per difendersi dall’incognito. Ma dov’è questo popolo? L’Ungheria non ha meno diritti all’autoprotezione della Grecia, di Israele, del Messico e, chissà un domani, dell’Italia. Ma questi muri profani e improvvisati sono segnali di autocoscienza o di fragilità? Esistono linee di confine invisibili, immateriali, geodetiche direbbero i moderni, e sono più potenti d’ogni materiale a prova di bomba e di terremoto. Sono il prodotto invalicabile di volontà scettrate, cognizioni, convinzioni e, via discendendo, pregiudizi. Quando blocchi di pietra, malte cementizie, fili spinati o anche solo pietre di confine vengono poste sopra queste linee, il dubbio e la paura hanno già preso il sopravvento. Non bastarono le Alpi, figurarsi il Vallo di Adriano e le Mura Aureliane, a contenere l’urto del nord e l’immensa mole di Goti e Vandali, degli Unni e dei loro fantasmi ancora annidati nel sottofondo irrazionale delle nostre ipocondrie. E sì che quelle erano mura consacrate, perché in antico non v’era protezione fisica priva di dedica trascendente.

 

Troia è caduta quando l’architrave delle Porte Scee è stato abbattuto per consentire l’ingresso all’infausto Cavallo. A quel punto il cerchio magico s’è spezzato, insieme con le difese dei numi costruttori delle mura frigie: ammutolita la musica saettante di Apollo, dissolte nella spuma le chiome azzurrate di Poseidone. Ulisse vinse così, prima che l’empio Neottolemo facesse strage. I primi Spartani si facevano vanto di non possedere valli e terrapieni intorno a Lacedemone, sapevano che dentro le mura abitano l’illusione della salvezza e il terrore di perderla, al di fuori l’ignoto, latebre di barbarie per affrontare le quali è necessaria una saldezza interiore, una cittadella del cuore. Noi italiani siamo gli eredi dei Pelasgi costruttori di mura e di torri (da cui il nome dei Tirreni, poi Etruschi) lungo tutto il Mediterraneo, i nostri avi erano sapienti metronomi costretti a ri-tracciare limiti e confini spazzati via dal cataclisma atlantideo. Nessuno più di noi, come suggerirebbe una memoria ancestrale che ha sede nel plesso solare, conosce il bisogno e la transitorietà d’un muro di fondazione che faccia da scudo per le nostre debolezze e le nostre identità.

 

[**Video_box_2**]Dal re Servio Tullio, che volle così serbare una Roma storica ancora fanciulla, ai potentati feudali della Penisola atomizzata dalla caduta dell’impero dei Cesari, fino all’attuale nostro medioevo virtuale, nel quale i muretti delle periferie metropolitane, barriere architettoniche nelle premesse, diventano aggregatori di adolescenti bellicosi e palinsesti per murales (i loro sigilli): ogni muro è al tempo stesso un’intercapedine e una resa alla battaglia materiale di dèmoni e corpi, una barriera di neve contro i bruti e i non-morti d’ogni Game of Thrones immaginabile, il contrarsi in sé di una civiltà che si oppone all’irradiazione massiva dall’esterno. Qui sta il segreto. Popoli, etnie, glorie e tramonti: sono soltanto particule di un gioco cosmico fatto di continue sistole e diastole, un gioco sfuggente alla storia evenemenziale perché è il respiro cardiaco dell’anima mundi. Il muro è l’ossigeno, ma non è tutto. Non servirà, non serberà, se manca il cuore.

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