Sui privilegi alle scuole private, è dai tempi della Falcucci che non mi aspetto nulla di buono. Sulla potestà gerarchica vorrei di più, perfino il bastone e la sferza antichi

Minkia signor preside

Alessandro Giuli
La riforma renziana della scuola e la paura dell’uomo forte al comando dell’istituto. Proteste, occupazioni, ombrellate e sorsi di whisky. A passeggio tra cronaca e memoria.

Autunno 1989. Liceo Tasso Okkupato. Interno notte. Un bivacco di manipoli del Collettivo studentesco (tendenza Quarta internazionale) dorme nei sacchi a pelo sciorinati come gli anelli di un millepiedi dall’Aula magna all’ufficio di presidenza. Un lontano balbettìo di pioggia in sottofondo. Alle prime luci dell’alba arriva la preside Paola Fabbri, si fa largo fra i dormienti con il manico del suo ombrello e ne colpisce alcuni sul sedere, non per svegliarli, non per capire se siano vivi o no, perché non ne può più dei suoi amati ragazzi che hanno imbrattato i muri della scuola e sporcato ovunque e offeso alcuni professori. Il giorno dopo Paola Fabbri verrà processata in contumacia dall’assemblea degli studenti, con più d’un professore solidale alla causa: è colpevole – dicono – d’aver aggredito a colpi d’ombrello uno dei capi della rivolta contro l’iniqua riforma del ministro Ruberti. Titola l’Unità, il giorno dopo: “Al liceo Tasso ombrellate agli occupanti”. Versione degli occupanti: “Stavamo ancora dormendo quando all’improvviso è entrata la preside arrabbiatissima che, ombrello alla mano, ha cominciato a urlare battendoci sui sacchi a pelo. Ci ha chiamato ubriaconi, maleducati…”. Versione della preside: “E’ vero, ho perso la pazienza. Ma non è possibile trovare i registri nel cortile, i compiti in classe buttati dalla finestra, le bottiglie di whisky vuote, le cartacce sparse per terra. E’ un bivacco indecente… io sto dalla loro parte, i ragazzi lo sanno, ma sbagliano a trasformare la protesta in atti di teppismo. Le botte e le ombrellate? Ho solo dato delle pacche sul sedere e avevo l’ombrello in mano”.

 

Non finirà bene, querele e controquerele, la preside Fabbri durerà poco. Era “una di loro”, cioè una che le occupazioni non le ostacolava, anzi. Dissero, forse per danneggiarla, che bevesse forte. Si narrava di certe sue leggendarie elargizioni di whisky agli studenti spediti dal prof. in presidenza per qualche ragione disciplinare e invece consolati dalla preside con pacche sulla spalla mentre lei apriva l’armadietto per prendere la bottiglia e farsi un goccio e appunto offrirlo. Se non è vero vorrei che lo fosse, sarebbe bellissimo.

 

Due anni prima, durante i moti contro la riforma del ministro Falcucci, di Paola Fabbri scriveva anche Repubblica. Scriveva così: “Intanto la preside, Paola Fabbri, cinquantenne, trench rosso fuoco, sale la piccola scalinata del portone del palazzo umbertino che ospita il liceo romano dove il 70 per cento circa dei professori che è dalla parte dei Comitati di base ha impedito gli scrutini del primo quadrimestre e, dopo il richiamo all’ordine del ministro Falcucci, è ancora più intenzionato a marciare avanti. Come va? ‘Così come si legge sui giornali. Certe intimidazioni, certe piccole vendette in una situazione di diffuso malcontento e così deficitaria, mi sembra che abbiano le gambe corte. Dal provveditorato hanno telefonato per chiedermi di fornire un elenco degli insegnanti che bloccano gli scrutini. Hanno detto che li voleva la magistratura. Ma io non farò neppure un nome. Dovranno venire i carabinieri, qui al Tasso, con un regolamentare mandato di sequestro e allora…”. Una di loro, la preside Fabbri. Che te ne fai di una preside così, più tenerezza che altro, buona nemmeno per il liceo Marilyn Monroe di Nanni Moretti evocato giovedì scorso qui da Maurizio Crippa (“Chi ha paura del preside? Figura sospesa tra l’inane burocrazia e l’abnegazione del missionario”). Era evidente che l’avrebbero divorata. Il liceo Tasso di Roma non faceva e non fa statistica, però è un buon esempio e non è cambiato granché da allora.

 

Su una cosa oggi sono tutti d’accordo: la scuola pubblica fa schifo, così com’è conciata. Poi su #labuonascuola ognuno sta per conto suo, fra scudi e spade e sputi di piazza sulla riforma di Renzi e della sua ministra basita Stefania Giannini. Sintesi plastica, uno degli striscioni issati l’altro giorno dagli scioperanti della scuola inferociti: “Riforma sì, ma non così”.
L’altro giorno vedevo su internet i tuìt del mio sottosegretario preferito di tutti i tempi, Davide Faraone, che appunto lavora alla Pubblica istruzione (Miur) e sta facendo una gran fatica per spiegare a forza di slide che non è come dicono gli insorti, non è vero che nella nuova legge ci sarà un preside-tiranno, dirigente plenipotenziario, manager spietato con la cassaforte sotto la scrivania, il diritto di promuovere docenti amici e asfaltare i ribelli, scudisciare gli studenti e starsene insomma solitario e indaffarato sopra il cucuzzolo del proprio imperio ad ascoltare il chioccolìo dei quattrini pubblici. Una di queste slide domandava retorica: “E’ vero che il dirigente decide da solo chi premiare tra i docenti?”. Risposta: “NO”. Spiegazione: “Il dirigente deve motivare al Consiglio di istituto le proprie scelte. Ed è sufficiente? Il Pd propone che sia il comitato di valutazione (composto da genitori, studenti, docenti individuati dal Consiglio d’istituto) a individuare” eccetera. Che peccato.

 

Non sono un esperto di scuola pubblica ma non vorrei mai far parte d’un comitato di valutazione scolastica che comprendesse genitori come me e, peggio ancora, studenti. Se vi fa così paura il preside, o dirigente sommo o come volete chiamarlo, significa però che qualcosa di buono nella riforma c’è. Il preside, dottore Faraone, dottoressa Giannini, deve fare un po’ paura, deve avere gli strumenti per spaventare e valutare e agire senza essere giudicato da altri che non gli siano superiori per grado, figurarsi se dagli inferiori (sì, ho scritto “inferiori”). Con l’età si diventa reazionari, non lo scopro io adesso, ma è sufficiente fare appello alla mozione dei ricordi per convincersi che si è nel giusto, o nei suoi paraggi. Perché in fondo è la scuola in sé a dover essere un po’ reazionaria, se si vuole che funzioni un minimo. Il preside sarà sempre di sinistra, perché se no difficilmente diventa preside ma non è questo il punto. Il punto è di che sinistra parliamo.

 

Achille Acciavatti sì che era uno tosto; eccome, poi, se di sinistra. Talmente di sinistra da finire “licenziato” per decreto dall’Ufficio scolastico regionale che, nel 2005, gli aveva indebitamente negato il diritto di restare malgrado i limiti d’età. Stava lì da 15 anni, Acciavatti s’era messo di traverso alla riforma di Letizia Moratti. Lo spiegò lui a Repubblica, non appena ottenuto il reintegro dal tribunale: “Ho sempre manifestato pubblicamente la mia contrarietà alla riforma Moratti, per quelle parti che non ritengo condivisibili. E proprio quest’anno parte un progetto di sperimentazione della riforma nelle scuole superiori. Quale trampolino di lancio migliore del liceo Tasso a Roma? Però al Tasso c’è Acciavatti e con lui la sperimentazione non parte. Non è l’uomo giusto al posto giusto”. Dov’è il lato parlante della faccenda? Sta nel fatto che gli studenti del Tasso, alla notizia del reintegro, s’incazzarono.

 

Come scrisse l’Unità: “Il 21 luglio Rusconi viene nominato nuovo preside del Tasso e il professor Acciavatti presenta reclamo. Il 30 agosto il ricorso viene respinto, ma due mesi dopo, al termine del secondo grado di giudizio, un’ordinanza di 11 pagine reintegra Achille Acciavatti nel suo ruolo e fa tornare i ragazzi del Tasso, dopo la mobilitazione contro la riforma Moratti, a chiudersi nelle aule”. Ad Acciavatti appena reintegrato, di sinistra ma non tendenza Liceo Marilyn Monroe di Nanni Moretti, gli studenti preferivano il successore Mario Rusconi, più dialogante e permissivo. “Non sappiamo”, obiettò su Rep. uno studente di nome Giacomo, “se con il ritorno del vecchio preside tutto questo avrà un seguito. Acciavatti aveva un’impostazione, per così dire, tradizionale… la convocazione di un comitato studentesco straordinario Acciavatti non l’avrebbe mai accettata”. Tre anni dopo, lo stesso Acciavatti sarebbe finito ancora nei pasticci per aver accusato di violenze uno studente del Tasso che invece esibiva un alibi di bronzo e un avvocato di grido sinceramente democratico come Guido Calvi. Non so come sia andata a finire, so quali erano le accuse di Acciavatti perché le ha riportate l’accusato nella sua autodifesa: “Il suddetto preside avrebbe preso un autobus della linea 360 in direzione piazza Zama per recarsi in un altro istituto di cui ha la reggenza e avrebbe individuato nel tragitto, fra i passeggeri, un suo studente, che dichiara di conoscere e che dichiara presente in classe. Giunti alla fermata dell’autobus di fronte alla Coin di piazza S. Giovanni, lo studente gli si sarebbe avvicinato e gli avrebbe chiesto: ‘Lei è il preside del Tasso?’. Ricevuta la risposta affermativa, lo studente avrebbe sputato al suo preside, lo avrebbe ingiuriato con epiteti come ‘mafioso’, ‘coglione’, ‘bastardo’; sarebbe dunque sceso dalla vettura tenendosi i genitali tra le mani in un osceno gesto di ingiuria, sarebbe rientrato nell’autobus per risputare nuovamente al direttore scolastico, stavolta mancandolo. Quindi sarebbe uscito definitivamente dall’autobus”.

 

E chi non ha sognato una volta, nella propria vita di studente, di fare una cosa simile al preside o a un professore? Il guaio è che qualcuno allora passò dal sogno alla realtà. E al Tasso, come dentro innumerevoli altre scuole, queste cose sono accadute e accadono ancora. Salvo il dettaglio che ora agli studenti s’aggiungono spesso anche genitori maneschi e vendicativi. (Mentre scrivo queste parole avverto incombente la stessa autoaccusa: reazionario! questurino! borghese!).

 

Nel 1991 al liceo Tasso presieduto da Achille Acciavatti eravamo quattro contro seicentonovantasei su settecento studenti. Non quattro gatti, quattro Ratti: “Fascisti / carogne / tornate nelle fogne”. Sicché non mancava il dafare, sopra tutto con gli autonomi di Via dei Volsci (“arrivano quelli grandi! arrivano i trentenni!” si diceva allora fra noi quindicenni) che improvvisavano comitati d’accoglienza al mattino, gruppi d’ascolto durante le lezioni e saluti cordiali di spranghe al suonare dell’ultima campanella (noi, di nostro, certo non eravamo pacifisti: fosse nata allora, CasaPound ci avrebbe spicciato casa, diciamo). Malgrado i numeri sfavorevoli, riuscivamo a raccogliere le firme indispensabili a presentare la nostra lista alle elezioni per il Consiglio d’istituto (non anche i voti per andarci, naturalmente); riuscivamo ad appendere i nostri manifesti accanto a quelli del Collettivo e dei Figiciotti (i nostri erano i più biodegradabili, nel senso che avevano una scadenza ravvicinatissima, più o meno i cinque minuti necessari a che i compagni se ne accorgessero appena entrati a scuola e li strappassero ringhiandosi fra loro la solita domanda: come cazzo hanno fatto ad appenderli nella notte? Non li appendevamo nella notte, potevamo contare su un bidello napoletano e collabò che zitto zitto faceva entrare uno di noi nel deserto scolastico delle otto meno dieci); avevamo perfino una pubblicazione nostra finanziata dalla scuola come tutte le altre, ma durò poco e il movente sta nell’unica prof. fascista della scuola, Maria Pia Baccari, Matematica e Fisica nella sezione C (la mia), decana dell’isituto, nata ad Addis Abeba, occhio ceruleo da giochi ginnici del Ventennio e più d’una vaga somiglianza con un mite bulldog. Il nostro giornaletto, in omaggio alla vecchia Voce della Fogna diretta ai bei tempi dal prof. Marco Tarchi, si chiamava la Fogna del Tasso, l’avevamo ereditato dai Ratti maggiori ormai maturati e andati ora a ratteggiare nelle università. La nostra Fognuzza era passata indenne al vaglio della vecchia preside Fabbri, ma non passò l’esame perbenista di Maria Pia Baccari e Achille Acciavatti.

 

Odiatissimo dai compagni per la sua vocazione ordine-e-disciplina, il preside ci tollerava ma, dovendo scegliere per chi parteggiare nelle controversie politiche, finiva sempre per indicarci il tombino (“Fascisti / carogne / tornate nelle fogne”). E così avvenne quando la camerata prof. Baccari mi intimò di cessare seduta stante le pubblicazioni se non volevo finire sospeso: “Non mi interessa la politica, il nome del tuo giornaletto è indecoroso per un istituto blasonato come il Tasso”. Convocato in presidenza, Acciavatti non ascoltò una sola parola di protesta: “Prima che tu apra bocca, devi sapere che in passato ho tenuto testa ai fascisti di Terza posizione, non mi spavento per un quindicenne come te”. Vinse lui e lì per lì avrei voluto fare come lo studente degli sputi nell’autobus. Oggi invece non vorrei mai far parte d’una dirigenza scolastica che autorizzasse la pubblicazione di un giornale chiamato la Fogna del Tasso. Ma non per discriminazioni politiche.

 

[**Video_box_2**](La Baccari sarebbe infine riuscita a farmi sospendere due giorni, con obbligo di frequenza, per motivi disciplinari, avendole io tirato, senza centrarla, un libro di Fisica dopo un alterco per via d’una mia giustificazione fuori tempo massimo. Quando portai ad Acciavatti il registro di classe con la nota di sospensione, accompagnandolo con le mie proteste – la Baccari mi sospende, è una vergogna…” –, lui controfirmò senza neppure leggere: “Ha ragione lei, sei sospeso”. Alla fine dell’anno, immagino a titolo risarcitorio, la prof. nata ad Addis Abeba mi regalò un opuscolo su Salandra e il fascismo scritto da suo padre durante il Ventennio).

 

Per quel lunedì non si presagiva nulla di buono. Com’è come non è, avevamo arrangiato una rissa al sabato notte in piazza Fiume, una proto cinghiamattanza nella quale l’unica ferita fu la macchina di un compagno neopatentato. Nel frattempo a scuola eravamo rimasti in tre contro tutti quegli altri. E uno di noi, il più rassicurante per stazza e dimestichezza con la lotta libera, la domenica andò a seguire la Lazio a Cremona. Il lunedì avrebbe fatto sega, come dopo ogni trasferta che si rispetti. Il lunedì arrivò, e con il lunedì, all’uscita di scuola, arrivarono una trentina di autonomi in cerca di vendetta contro i due Ratti presenti. Io e Gianmarco ci dotammo rispettivamente di scopa e di paletta e ci barricammo in Aula magna (barricarsi si fa per dire, coi nostri attrezzi controllavamo sì e no due metri quadri di polvere), pronti a offrire il petto a quella che nel gergo si diceva “trita sicura” e cioè l’atto di essere tritati come cocci. Acciavatti chiamò la polizia. Parlamentammo allora con i due sbirri di una volante scalcagnata che si era fatta largo fra gli aggressori: “Venite via con noi”. “Con voi giammai”. Più che farci accomodare nell’auto, i poliziotti ci scagliarono dentro a forza per evitare le monetine che intanto piovevano (uno di loro, che ancora ricordo nelle mie “preghiere”, si tolse lo sfizio bastardo di mettermi la mano aperta sulla testa per spingermi a sedere sul sedile posteriore, come si fa con gli arrestati). Dopo tre minuti e una decina di calci sull’auto, finimmo fuori dal vortice, ma i due sbirri fecero appena il giro dell’isolato e poi ci scaricarono: “Cavatevela”. Se solo i compagni fossero stati più furbi e pazienti, sai la trita…

 

Nei giorni seguenti s’inseguirono episodi simili dentro e fuori scuola. Essendo io quindicenne, arrivò a casa una telefonata della presidenza e mia sorella, undici anni, istruita soltanto a non aprire mai alle forze dell’ordine, passò la cornetta a mio padre che, ignaro di tutto, fu convocato al Tasso. Acciavatti: E’ successo questo e questo e questo ed è tutta colpa di suo figlio e dei suoi amici. Mio padre: santi numi, lo tolgo da scuola. Acciavatti: forse farebbe bene… o forse no… con quella media di voti è un gran peccato lasciare il Tasso.

 

Com’è come non è, Acciavatti raccontò tutto il male possibile delle mie idee politiche e tutto il bene possibile delle mie capacità d’apprendimento, forse sbagliando su entrambe le cose, forse no. Mi sospese venti giorni per ragioni di ordine pubblico con l’obbligo di non frequenza, e tornò la calma al Tasso (non per molto) dove avrei infine concluso gli studi. Grazie ad Achille Acciavatti, il preside più odiato dagli okkupanti romani. E da me.

 

Dice: ma chi te l’ha fatto fare. Metterti a disseppellire ’sti ricordi invecchiati pur di citare un preside mediamente stronzo per unanime consenso. E che ne so, mi è venuto così… e poi, a rivederlo oggi, forse stronzo non lo era. Era un preside “tradizionale”, di quelli che chissenefrega del Sessantotto eccetera, se vai a scuola studi e non occupi e non fai a botte, se no terza media e via a lavorare. Di quelli che se vuoi insegnare a scuola devi obbedire al preside, non ai genitori degli alunni. Uno da temere, il peggior preside possibile per uno studente, quindi un buon preside, a senso, per la scuola pubblica. “La scuola che ha in testa Renzi è diseguale, gerarchica e sempre più privata”, scriveva ieri il manifesto in un inserto monografico. Sui privilegi alle scuole private, è dai tempi della Falcucci che non mi aspetto nulla di buono. Sulla potestà gerarchica vorrei di più, perfino il bastone e la sferza antichi. Se rinasco negli stessi casini, però, istruisco prima mia sorella ad attaccare il telefono quando squilla a casa e risponde lei e di là c’è il preside in linea.

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