Ferry Porsche, figlio del fondatore, nel 1958. Sotto la sua guida, i Porsche ricominciarono dall’Austria e dalle auto di lusso, l’unico spazio lasciato loro finita la guerra

I Buddenbrook della Golf

Stefano Cingolani
Guerra in casa Volkswagen: il presidente Piëch sfiducia il capoazienda, il cugino Porsche non ci sta. Una distanza incolmabile con l’amministratore delegato dopo il fallimento in Nordamerica e la querelle sul modello low-cost.

L’operosa quiete di Wolfsburg, fondata dal nulla nel 1938 con il nome Kraft durch Freude Stadt (la Città della forza attraverso la gioia) per creare la Macchina del popolo, è scossa ancora una volta dalla guerra tra i due rami della famiglia che controlla il 53 per cento della proprietà. Ha aperto le ostilità Ferdinand Piëch che a 78 anni presiede il consiglio di sorveglianza della Volkswagen, quello che rappresenta i maggiori azionisti e dal quale dovrebbe uscire alla fine del prossimo anno, anche se non sembra averne intenzione. La scorsa settimana, in una intervista al settimanale Spiegel, ha rivelato che tra lui e Martin Winterkorn, l’amministratore delegato e suo previsto successore, si è aperto un solco. “Ich bin auf Distanz zu Winterkorn”, ha detto esattamente, una distanza incolmabile dopo il fallimento del piano di crescita in Nordamerica e la querelle sul futuro del modello low-cost, un progetto a lungo accarezzato da parte del management e poi accantonato.

 

L’uscita ha sollevato un putiferio. “Sono opinioni personali non discusse né tanto meno concordate in famiglia”, ha risposto Wolfgang Porsche, azionista e nipote dell’ingegnere che costruì la Volkswagen che voleva il Führer, cioè la prima versione del futuro Maggiolino. Porsche, 71 anni, capo dell’altro ramo della patriarcale famiglia, detesta il cugino e sostiene Winterkorn. Con lui è schierato Bernd Osterloh, potente rappresentante sindacale che siede in consiglio (il sindacato IG-Metal ha dieci posti su venti): “I dipendenti sostengono il prolungamento del contratto dell’attuale amministratore delegato oltre la sua scadenza nel 2016”, ha dichiarato, chiedendo di interrompere “il dibattito sulla leadership, che serve solo a riempire le pagine dei giornali”. Anche Stephan Weil, socialdemocratico, ministro-presidente del Land (azionista con il 25 per cento), vorrebbe evitare un conflitto al vertice che rischia di bloccare la resistibile ascesa verso il vertice della classifica mondiale dei costruttori di massa, in concorrenza con Toyota e General Motors. In aiuto a Winterkorn sono scese in campo anche le banche, mentre il comitato esecutivo della Volkswagen, che ieri mattina s’è riunito a Salisburgo, lo ha definito “il miglior amministratiore delegato possibile” e proporrà di prolungare il suo mandato anche oltre il 2016.

 

Nei sette anni al timone, Winterkorn ha aumentato le vendite del 77 per cento investendo più di qualsiasi altro gruppo automobilistico (11,5 milairdi di euro in ricerca e sviluppo), ma a spese dei profitti che sono calati nettamente: i margini sono al 6 per cento nell’intero gruppo, molto meno del grande rivale giapponese Toyota, e soltanto grazie al marchio Audi. I modelli base Volkswagen non tirano più come un tempo, negli Stati Uniti tutte le speranze ora sono riposte in un nuovo suv che dovrebbe uscire il prossimo anno dalla fabbrica di Chattanooga in Tennessee, mentre in Europa si punta sull’ultima versione della Passat.

 

Il capo azienda per ora non cambia, probabilmente saprà far tesoro dei suoi errori soprattutto in terra americana. La presidenza, invece, è nella mani dei cugini terribili. Nelle famiglie Piëch e Porsche si specula anche su una possibile successione della moglie del presidente, Ursula, ex governante di trent’anni più giovane, impalmata nel 1982 ed entrata nel 2012 nel consiglio di amministrazione della Volkswagen. Ferdinand smentisce secco: “Io ambisco a che ci sia la persona giusta. E questa non è né un membro della famiglia, né mia moglie. Non voglio continuare a guidare il consiglio attraverso di lei”.

 

Con un carattere brusco e imperioso, consapevole del peso che la storia ha messo sulle sue spalle, Ferdinand Piëch è sempre stato un uomo laborioso e timorato. L’unico eccesso, il troppo amore per le donne. Non a caso ha 12 (alcuni sostengono 13) figli nati da quattro unioni diverse, alle quali va aggiunta una serie di avventure sentimentali, come quella con Marlene, l’ex moglie del cugino Gerd Porsche. Di qui le insinuazioni in seno alla famiglia diventata ormai un nido di vipere.

 

Di nemici Ferdinand se n’è fatti tanti nel corso della sua lunga carriera. Primi fra tutti quelli che hanno osato contraddirlo. Come gli ex capi dell’Audi Franz-Josef Kortüm, Herbert Demel e Franz-Josef Paefgen, silurati da Piëch in persona per le loro obiezioni alle scelte del presidente. La stessa fine è toccata anche a Ignacio Lopez, il responsabile acquisti sottratto alla General Motors e poi costretto a dimettersi per via delle accuse di spionaggio industriale ai danni della Opel, controllata dal gruppo di Detroit. O Bernd Pischetsrieder, l’ex capoazienda della Bmw designato inizialmente da Piëch come proprio successore ma poi abbandonato per divergenze sullo sviluppo di nuovi modelli.

 

L’ultima vittima era stata Wendelin Wiedeking, il brillante ex amministratore delegato della Porsche, capace di portare il fatturato della casa di auto sportive e suv di Stoccarda da 300 milioni a 27 miliardi di euro, ma inciampato nell’azzardato tentativo di acquisizione ostile del gigante Volkswagen (risoltosi, invece, con la conquista della Porsche da parte della VW). Wiedeking è stato costretto ad andarsene (con una buonuscita di 50 milioni di euro).

 

Secondo il Financial Times, Ferdinand Piëch è uno specialista nel defenestrare i suoi manager, specialmente quelli che egli stesso aveva designato come propri successori. Urano divora i propri figli, il mito greco ci accompagna proprio come voleva un altro tedesco geniale come Friederich Nietzsche. E Piëch, pur non arrivando a quelle vette, ha dimostrato di possedere il soffio del genio. Genio dell’intrigo, dell’industria e della dissimulazione. Günther Grass, “la coscienza critica della Germania”, varcata la soglia dei settant’anni, ha dovuto rivelare gli errori del proprio passato. Piëch come molti altri saliti al vertice del potere nel dopoguerra, ha preferito glissare sulle storie di famiglia.

 

Ferdinand Karl, figlio di Anton Piëch e Louise Porsche è nato a Vienna nel 1937, svezzato in Porsche fino al 1971, grazie al successo della 907 viene chiamato alla Audi per rilanciare il marchio destinato alla gamma alta del mercato. Una carriera folgorante che gli vale il comando della casa madre, quando Carl Hahn nel 1993 lascia una Volkswagen in piena campagna europea, ma piena di buchi. Piëch la rilancia e viene incoronato salvatore. Ma la faiblesse per il lusso lo spinge a compiere passi più lunghi della gamba. Vuole togliere spazio a Mercedes e Bmw, così acquista Lamborghini e Bugatti, poi punta addirittura a Rolls-Royce e Bentley. Una nuova battaglia d’Inghilterra che si risolve in un’altra débacle: prende Bentley, però gli viene negato il nome Rolls-Royce.

 

Piëch passa la mano, ma solo in apparenza. Dal consiglio di sorveglianza e come maggiore azionista, manovra la potente IG-Metal e sfida il governo della Bassa Sassonia. Cambiata la legge, potrà acquisire la maggioranza del capitale. Non tutto filerà liscio. Il Land punta i piedi, i sindacati reclamano la loro mercede. Poi c’è di mezzo Wendelin Wiedeking, l’uomo che ha ristrutturato e rilanciato la Porsche che stava per essere venduta alla Toyota. “La vanità familiare e la motivazione del profitto si combinano malamente”, commenta Karel Williams della Manchester Business School. E’ accaduto ai Ford o agli Agnelli, ai Bancroft che hanno mollato il Wall Street Journal e a tanti altri colpiti dalla sindrome dei Buddenbrook.

 

Finché è rimasto in vita Ferry Porsche, figlio del geniale Ferdinand, il progettista di origine boema che concepì la macchina del popolo su indicazione di Hitler in persona, la sua autorità aveva tenuto insieme appetiti, rivalità, revanscismo. A causa dello stretto legame con il nazismo, i vincitori prima li avevano espropriati e imprigionati, per poi concedere ai Porsche una posizione di nicchia, con le loro auto ricche e potenti e un pacchetto azionario rilevante, ma non di controllo, su Volkswagen. Un equilibrio al ribasso, ingoiato, bon gré mal gré, anche dagli eredi. 

 

La famiglia Piëch-Porsche è tornata al comando dopo un lungo esilio. Ferry Porsche e il genero Anton Piëch (avvocato viennese che ha sposato Louise Porsche) mentre le truppe alleate conquistano Stoccarda, erano nel territorio di Vichy, a progettare la “voiture du peuple” per la Renault nazionalizzata. Il 15 dicembre vennero imprigionati come criminali di guerra. Ferry è subito rilasciato, ma gli altri due rimangono in carcere a Digione fino all’agosto 1947, costretti a lavorare al progetto della Quattro Cavalli.

 

Sotto la guida di Ferry, i Porsche ricominciano dall’Austria e dalle auto di lusso, l’unico spazio lasciato loro. La prima, tutta costruita a mano, è in strada nell’inverno 1947. Grazie a Carlo Abarth, tornano alle corse con la 360 Cisitalia. Poi, Heinz Nordhoff, il nuovo capo della Volkswagen, concede alla famiglia una quota di profitti per ogni Maggiolino, le materie prime e la rete di concessionari. Purché restino fuori dall’auto di massa.

 

[**Video_box_2**]Il vecchio Ferdinand muore nel 1951 e fa appena in tempo a vedere il successo della nuova 356 alla 24 ore di Le Mans. Ferry tiene le redini di fatto fino al 1989 (muore il 27 marzo 1998). Il figlio Ferdinand Alexander detto Butzi, è al suo fianco da quando nel 1972 la compagnia debutta in borsa, con la garanzia che le famiglie Porsche e Piëch mantengano saldamente il controllo azionario, sicuri del fatto che nelle loro vene scorre il sangue del grande avo, l’ingegnere boemo che si faceva passare per austriaco puro sangue e al quale non bastava fare vetture come le altre (tanto che nel 1900, a soli 25 anni, aveva costruito la prima auto elettrica, in anticipo di un secolo).

 

Eppure, anche quel geniale inventore si era fatto divorare dal demone dell’imbroglio. Nel 1934, al salone dell’auto di Berlino, Ferdinand Porsche aveva sentito Hitler esclamare, davanti al padiglione dell’azienda cecoslovacca Tatra: “Ecco l’automobile per le mie strade”. Quel piccolo modello compatto, con motore raffreddato ad aria, chiamato V570, sembrava fatto a posta per diventare l’auto del regime. Dopo aver guidato per anni la Daimler-Benz come direttore tecnico, Ferdinand aveva aperto uno studio di consulenza e sudava sette camicie su un progetto di vettura piccola e popolare. Con gran disappunto, apprese che il Führer aveva invitato nel suo appartamento berlinese Hans Ledwinka e suo figlio Eric, i creatori della V570, intimando loro di consegnargli i progetti che avrebbe poi girato a Ferdinand che si era anche iscritto al partito per fare carriera.

 

Nel 1938 vide la luce il primo Maggiolino e nessuno ricordò più la Tatra. La notizia che era stato Ledwinka (lui davvero austriaco), ad aver ideato e costruito la Volkswagen, negli impianti di Koprivnice, piacque molto agli inglesi nel dopoguerra. Ma figura anche nella biografia ufficiale della casa automobilistica cecoslovacca, uscita di scena dopo la fine del comunismo (anche la fabbrica di camion è finita agli americani). In Volkswagen l’hanno sempre considerata una malignità. Adesso è arrivato il momento di rimettere le cose a posto, a rischio di dimenticare nella polvere della storia il povero Ivan Hirst, maggiore britannico inviato a liquidare gli impianti di Wolfsburg: fu lui a salvare e rilanciare il Maggiolino. Abbandonato tra camion e kubelwagen, trovò uno sgangherato prototipo e lo presentò tutto eccitato a Lord William Rootes, il magnate britannico dell’auto, il quale lo guardò schifato: “Se vuoi costruire vetture così brutte, ragazzo mio, sei un folle”, sentenziò. Sappiamo poi come è andata.

 

La Volkswagen nacque fin dall’inizio come auto dalle ambizioni mondiali, nella testa sia di Hitler, convinto che il Terzo Reich avrebbe imposto ovunque la sua legge, sia di Porsche. Gli impianti nella Bassa Sassonia vennero costruiti con manodopera italiana graziosamente prestata da Benito Mussolini, pensando a River Rouge, lo stabilimento modello di Henry Ford. La vettura del popolo deve essere più maneggevole, più veloce e meno cara delle Ford. Hitler, che suggerisce la forma a maggiolino, indica anche il prezzo base: mille marchi, equivalenti a 140 dollari di allora, la metà di una Ford B.

 

La battaglia tra i due rami della famiglia per il controllo della Volkswagen è andata avanti per quattro anni. Wolfgang prima acquisisce la maggioranza, spendendo 23 miliardi di euro e indebitandosi fino ai capelli, ma non gli basta ancora, vuole arrivare al 75 per cento per avere il potere assoluto. Senonché la recesione del 2008-2009 lo riporta a più miti consigli, finché Piëch con un clamoroso rovesciamento di fronte non propone la fusione tra le due imprese, diluendo il debito e di fatto salvando la Porsche. Wolfgang sputa fuoco dalla bocca come il drago di Sigfrido. Ma cede. Adesso, le bizze del parente e il rischio di trovarsi sotto il tallone di una donna, una ex bambinaia, mai considerata dello stesso lignaggio, ha riaperto le vecchie ferite e riacceso mai sopiti furori.

 

Se questo è il capitalismo tedesco, allora c’è poco da alzare il ditino. Si contende il volante della Volkswagen una famiglia rissosa, lacerata da odi e volontà di vendetta, che ha fatto fortuna con il nazismo, ha brevemente risciacquato i panni nel Reno, poi è tornata a spadroneggiare. Insieme a lei, stretti in un complice vincolo, ci sono sindacati e poteri locali (per lo più in mano al Partito socialdemocratico). Il gruppo, protetto da questo abbraccio consociativo non è contendibile, la proprietà irrigidita è sottratta al mercato, il capitale, ingessato dal matrimonio morganatico con il lavoro, segue i dettami del più ortodosso corporativismo. Alla faccia della società aperta, di Karl Popper, di Adam Smith. Dell’Ordoliberalismus al quale si ispira la cultura politica nella Germania del dopoguerra, resta solo l’ordine, un vecchio ordine con quel sapore stantio che trasuda dalle case dove albergano vecchietti arzilli e bizzosi, che non mollano mai e, come Mastro don Gesualdo, vorrebbero portare con sé la roba anche nell’aldilà. Il modello tedesco può non piacere, ma funziona: è il ritornello che ripetono anche i critici più accesi. Quel che sta accadendo al vertice della Volkswagen smentisce anche questo luogo comune. E una grande storia industriale, grande e terribile ai suoi esordi, nella orgogliosa e pedagogica Germania, rischia di finire in un vaudeville.

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