festa dell'ottimismo

Zuppi: “Una pace senza giustizia fra Mosca e Kyiv porterebbe alla prosecuzione della guerra"

Il cardinale alla Festa del Foglio: “Il tempo non sta giocando a nostro favore, attenzione alla scintilla atomica”

Matteo Matzuzzi

Il mondo sospeso sul baratro di una guerra nucleare, quasi congelato tra due alternative in ogni caso drammatiche: o si annienta la Russia o a essere annientata sarà l’Ucraina. In mezzo, l’opzione della pace. Se ne parla tanto, non sempre a proposito e spesso in modo banale e superficiale. Come si può uscire da questo aut aut? Matteo Maria Zuppi, cardinale e arcivescovo di Bologna, è intervenuto oggi alla Festa dell’Ottimismo del Foglio.

Ottimismo ce n’è poco, ma almeno la speranza resiste nonostante tutto. “Come uscirne? Innanzitutto dobbiamo uscirne. La sintesi è quella che ha già illustrato il Papa, che ha chiesto in tanti modi espliciti e impliciti: la vera vittoria è la pace. Non c’è altra vittoria. Dato e non concesso che possa esserci una vittoria militare, questa porterebbe una continua escalation militare con il rischio di omologare gli ordigni nucleari a naturale e ineluttabile conseguenza sul terreno”, dice mons. Zuppi, che prosegue: “Certamente c’è il problema di coniugare la ricerca di altre soluzioni con il tema della giustizia, perché è ovvio che la pace e la giustizia vanno insieme. Non si può solo pensare alla pace senza giustizia, perché ciò porterebbe a una prosecuzione del conflitto. E’ necessario cercare il dialogo. Henry Kissinger, con cui si può essere o meno d’accordo ma è una persona intelligente, parlava di dialogo esplorativo. Questo però non può coinvolgere solo i due attori principali, ma anche tutti coloro che possono e debbono creare l’opportunità affinché tale dialogo esplorativo possa essere avviato. E’ indispensabile. Speriamo che questa escalation geometrica possa essere interrotta e l’unica via possibile è quella di chiedere un dialogo che riguardi tutti quelli che sono coinvolti o possono essere coinvolti. Sempre per avere giustizia oltreché pace”.

Matteo Zuppi, trent’anni fa, era tra i protagonisti che favorirono l’accordo di pace in Mozambico, considerato una delle più recenti e concrete vittorie della diplomazia italiana. Per cui sa come si fanno le trattative, come si negozia tra attori che sembrano – e talvolta lo sono – distanti anni luce l’uno dall’altro. Chi più di lui, dunque, può dire come si arriva alla pace in modo che i massacri finiscano? “Non c’è una formula purtroppo. Non c’è un algoritmo né un’intelligenza artificiale che ci faccia arrivare alla pace. C’è il rischio di andare avanti con certi protocolli che poi però si devono scontrare con la storia del conflitto. Ignorare questa storia, il pregresso, il perché si è arrivati a questo punto e le occasioni perdute. E io credo che nel conflitto fra la Russia e l’Ucraina le occasioni perdute siano tante, considerato che nel frattempo entrambi i paesi avevano intensi rapporti con l’occidente. La conoscenza della storia del conflitto è decisiva per trovare gli spazi possibili di incontro e dialogo. La pace non è touch, un tasto da schiacciare. Nel mondo reale è tutt’altro”. E il Mozambico? “Per esempio, per arrivare all’incontro decisivo per la pace in Mozambico abbiamo impiegato sei anni. Non perché volessimo aspettare tutto quel tempo, ma perché volevamo conoscere le radici, l’humus che giustifica la guerra e che l’amplifica. Volevamo ascoltare, capire le cause profonde. Questo è indispensabile”. 

 

“E in questo – dice il cardinale Matteo Maria Zuppi – c’è anche un ruolo della diplomazia o delle diplomazie e anche di chi, come nel caso della Comunità di Sant’Egidio ma ci sono altre realtà, ha una grande conoscenza del terreno. Questo perché è fondamentale tradurre ciò in un’oggettività, in una comprensione culturale; avere cioè le chiavi di lettura. C’è infatti la possibilità che anche la presenza sul territorio – che resta importantissima – resti solo esperienziale, non riuscendo così ad aiutare nella ricerca della via verso la pace”. Per il Mozambico, dice l’arcivescovo di Bologna, “il fatto che quella italiana fosse una mediazione debole, ha rappresentato una forza. Perché tutti i soggetti, regionali e grandi potenze, avevano interesse a sostenere questo ruolo. Tutte le parti erano coinvolte e interessate a remare nella stessa direzione. Ricordiamoci che è vero che la guerra è un interesse, ma anche la pace lo è. Un’ultima considerazione: la pace la fanno gli attori lì se si riesce a trovare un denominatore comune. Se si riesce a stabilire questa consapevolezza, i problemi possono essere risolti. Nel caso del Mozambico, questo elemento comune era dato dal fatto che loro, i mozambicani, volevano tutti restare lì. Come diceva De Gaulle, la geografia non si cambia”. 

 

Ma non sarà ormai troppo tardi? Fra Mosca e Kyiv la tensione è alta e la situazione pare oggettivamente incancrenita. Risponde Zuppi: “Qualcuno potrebbe pensare che il tempo gioca a favore, invece no: il tempo non gioca a favore. Perché va sempre peggio e il tempo prepara un’altra guerra. In gioco, qui, c’è la morte non solo di una singola persona, ma di una generazione, segnata dalla guerra. Non ci sono solo quelli che muoiono fisicamente, ma anche le tante sofferenze che la guerra porta con sé. Le porto come stazioni della Via Crucis: i due bambini con la mamma e il trolley, morti. Il ragazzo avvolto in un lenzuolo insanguinato che suo padre teneva stretto, quasi fosse una deposizione di Cristo. Quell’altro padre che teneva la mano del figlio morto. Una piazza, una bomba, uno sguardo assente, perso. Non dobbiamo mai abituarci perché la guerra non è un problema di alchimie, non è soltanto un problema di diplomazie. Dobbiamo ricordarci sempre di quella sofferenza. Siamo all’interno di una logica geometrica, il piano inclinato della violenza, per cui c’è sempre più bisogno di armi, e il meccanismo va avanti. Certo, c’è un aggressore e un aggredito, certo che c’è una giustizia da ristabilire. E’ un discorso realistico e non irenico. Ma attenzione ché rischiamo che nessuno  controlli più niente: se c’è una scintilla atomica, il meccanismo va avanti autonomamente, per conto suo. Insomma, non sprechiamo il tempo che abbiamo”. Si parla tanto di pace, sui giornali, in tv. E poi si scivola ineluttabilmente verso discorsi che hanno a che fare con i bilanci famigliari, le bollette, i rincari. Forse, per parlare di pace in modo realistico e giusto, ci vorrebbe anche un’educazione alla pace, in modo da non renderne superficiale il concetto. Risponde mons. Zuppi: “Manca la consapevolezza che questa è una guerra mondiale. Uso un’espressione che è stata molto ripresa, in qualche modo direi addirittura fortunata, perché fotografava una realtà. E se la guerra è mondiale, riguarda anche me, riguarda anche noi. La pace conviene ma sicuramente c’è un problema di educazione alla pace. Durante i mesi della pandemia era chiaro che eravamo tutti sulla stessa barca e che ne saremmo usciti tutti assieme. Ora è uguale, tutto è interconnesso e la pace ci deve interessare. Questo intuito deve diventare conoscenza e tutti devono svolgere il proprio ruolo per raggiungere questo risultato”. Eminenza, a febbraio eravamo tutti commossi: guardavamo madri, figli e vecchi abbandonare in fretta le loro case in Ucraina. Inorridivamo davanti alle immagini di Bucha e Mariupol, passavamo ore davanti al televisore per capire e guardare quanto stava accadendo. C’erano bandiere ucraine ovunque. Ora, molto meno. Ci stiamo pericolosamente abituando alla guerra? “Certo che è un pericolo, perché abituarsi alla sofferenza degli altri e ad avere un incendio vicino casa è pericolosissimo. Suona l’allarme e a un certo punto ti abitui all’allarme. E’ dunque ancora peggio, perché significa che non ci rendiamo conto di quel che accade e di conseguenza siamo ancora più esposti e più vulnerabili alla forza del male e della guerra. Dovremmo ritrovare certe virtù del passato, penso ad esempio a quella che oggi si definirebbe la resilienza. I nostri nonni ce ne avevano parecchia, sapevano cosa significa arrivare a trovare delle risposte, non avevano la bulimia di sapere subito tutto. Scavare pozzi è molto più difficile che scavare buche e oggi serve scavare pozzi”.

 

Un’ultima domanda che non può non essere rivolta al presidente della Conferenza episcopale italiana. Poco meno di un mese fa si sono tenute le elezioni politiche e, al di là di chi ha vinto e di chi ha perso, il dato che subito è risultato evidente è stata la scarsa affluenza alle urne. Proprio in Italia, che per decenni si è vantata di essere il paese europeo dove si votava di più. Che coesa è successo? “L’uomo digitale è molto più passivo. Conosce di più e al contempo è più spettatore. Siamo all’inizio di un cambiamento verso un’antropologia digitale e questo, penso, è il prezzo che si paga. Ci sono però alcuni dati di fatto: se è vero che centinaia di migliaia di persone non hanno potuto votare per i più svariati motivi, è anche vero che dovremmo fare finalmente una legge elettorale che permetta di suscitare il desiderio di partecipare a qualcosa che altrimenti diventa incomprensibile. E mi pare che se c’è una cosa su cui siamo tutti d’accordo è che questa legge elettorale non va bene. Ci sono poi i partiti, che sono i più interrogati in fondo dal problema. Dovremmo fare della politica qualcosa di più serio che rispecchi le richieste delle persone: non è che queste non ci siano, a gente a qualcosa pensa, solo che non lo dice più. Infine, bisogna usare di più il terzo settore, che al contempo deve aiutare di più nel funzionamento della casa comune, cioè quel senso di comunità, di destino comune. Non perdiamolo e ritroviamo in questo il gusto della partecipazione”.

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