Editoriali
La Cassazione striglia i pm di Milano: le motivazione della sentenza stroncano l'inchiesta sull'urbanistica
Per provare la corruzione servono prove, non ipotesi. Attraverso il caso Tancredi la Suprema corte smonta i teoremi della procura lombarda
La sentenza della Cassazione risale a novembre, ma è con le motivazioni che si capisce davvero perché un altro pezzo dell’inchiesta sull’urbanistica milanese non stava in piedi. Non si tratta di un aggiustamento tecnico, ma di una presa di posizione netta sul metodo con cui è stata costruita l’ipotesi accusatoria. La Suprema corte annulla senza rinvio le misure interdittive nei confronti di Giancarlo Tancredi e spiega che, per parlare di concorso in corruzione, non basta evocare un clima opaco o un presunto sistema di relazioni. Il punto centrale, nelle motivazioni, è la consapevolezza. Tancredi, scrive la Cassazione, non risulta destinatario di utilità né parte di un accordo illecito. Se si vuole sostenere che abbia concorso nella corruzione altrui, bisogna dimostrare che abbia agito sapendo dell’esistenza di un patto corruttivo fondato su uno scambio tra utilità e funzione pubblica. Senza questa prova, ogni contributo resta giuridicamente irrilevante. E’ un passaggio che ridimensiona molte delle scorciatoie interpretative usate fin qui. La Corte è altrettanto chiara sul conflitto d’interessi. Il mancato rispetto dell’obbligo di astensione può avere rilievo sul piano amministrativo o disciplinare, ma non diventa la prova di una “vendita della funzione”. Trasformare una violazione formale in indizio decisivo di corruzione significa confondere piani diversi e spostare in avanti, per via interpretativa, i confini del penale. C’è poi un elemento che incrina la figura del “regista occulto” evocata nell’inchiesta: l’assenza di contatti diretti significativi e, soprattutto, l’espressione di un parere contrario su un passaggio chiave, che avrebbe avuto l’effetto di bloccare un’operazione. Un comportamento difficilmente compatibile con l’idea di chi agisce per agevolare un patto corruttivo. Il messaggio che esce dalle motivazioni depositate è semplice: dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio non è legittimo dilatare la nozione di corruzione per riempire i vuoti. Se l’accusa è corruzione, servono prove di corruzione. Tutto il resto può sostenere un racconto, ma non regge davanti a una sentenza.