 
                correre, correre, correre
La strategia del governo per convocare il referendum sulla giustizia al più presto
Meloni e Nordio vogliono tagliare i tempi di indizione del referendum confermativo, seguendo un’interpretazione diversa, rispetto ai governi precedenti, delle norme che regolano la materia. L'obiettivo è andare alle urne agli inizi di marzo, evitando la concomitanza con altri appuntamenti elettorali o che si aggiungano divisioni interne
Correre, correre, correre. E’ la parola d’ordine che circola tra Palazzo Chigi e Via Arenula sul referendum confermativo della giustizia, dopo l’approvazione in via definitiva del provvedimento al Senato (112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astensioni). “Un traguardo storico”, esulta Meloni: “Ora la parola passerà ai cittadini”. “Credo che tra marzo e aprile arriveremo al referendum”, dice Nordio. L'intenzione del governo è infatti quella di tagliare i tempi di indizione del referendum confermativo, seguendo un’interpretazione diversa, rispetto ai governi precedenti, delle norme che regolano la materia. L'obiettivo è andare alle urne agli inizi di marzo, evitando il periodo “caldo” di maggio-giugno, in cui potrebbero aggiungersi altri appuntamenti elettorali o divisioni interne.
L’articolo 138 della Costituzione prevede che se una legge di riforma costituzionale non viene approvata con la maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera, ma solo con la maggioranza dei voti, come è avvenuto in questo caso, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge possa essere avanzata richiesta di referendum confermativo da parte di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge di attuazione (la n. 352 del 1970) non fornisce specificazioni sul periodo dei tre mesi ed è qui che il governo Meloni sarebbe intenzionato a mettere in campo la sua strategia. Il piano consiste nel raccogliere subito le firme di almeno un quinto dei membri del Parlamento (come confermato in Aula anche dal senatore forzista Pierantonio Zanettin), passare dalla Cassazione per il via libera, e fissare la data dal referendum senza aspettare necessariamente che trascorrano tre mesi e che giunga l’iniziativa di altri soggetti, come la raccolta firme da parte di un comitato per il “no”.
Si tratterebbe di una novità rispetto ai precedenti (governo Amato nel 2001 e governo Renzi nel 2016): in quei casi, nonostante le firme dei parlamentari per avanzare la domanda di referendum fossero state raccolte nel giro di pochi giorni, Palazzo Chigi preferì aspettare comunque la scadenza del trimestre, ritenendo che in caso contrario sarebbe stato leso il diritto di iniziativa referendaria da parte di soggetti diversi dai parlamentari. Ma questa interpretazione delle norme non è ritenuta intangibile tra i giuristi, inclusi quelli che assistono il governo Meloni: nulla infatti vieta al governo di indire il referendum nel giro di poco tempo e poi consentire comunque ai vari comitati (o ai consigli regionali) di aggregarsi alla richiesta del referendum confermativo.
Procedendo in questo modo, il governo non sarebbe tenuto ad aspettare il 30 gennaio prima di decidere la data del referendum (che dovrà essere fissata in una domenica compresa tra il cinquantesimo e il settantesimo giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione). Risultato: sarebbe possibile fissare il referendum agli inizi di marzo. Un modo, spiegano fonti qualificate di Via Arenula, per evitare di incrociare altri appuntamenti elettorali che potrebbero sopraggiungere a maggio o a giugno. Ma soprattutto un modo per ottenere il via libera dei cittadini il prima possibile, perché – questo è il mantra – “nel frattempo qualsiasi cosa può succedere”. A partire da fratture interne alla maggioranza su questioni che riguardano altri ambiti, come la manovra (a preoccupare è in particolare l’insofferenza intermittente di Salvini).
Dall’altra parte, in questa maniera verrebbe limitata anche la durata della campagna referendaria, che si teme possa trasformarsi in uno scontro frontale sul piano politico e ideologico tra governo e magistratura (subito dopo l’approvazione definitiva della riforma, l’Associazione nazionale magistrati è tornata ad attaccare a testa bassa: “Questa riforma altera l’assetto dei poteri disegnato dai costituenti e mette in pericolo la piena realizzazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”).
Al momento le “grane” maggiori per il governo sono rappresentate paradossalmente dai guai giudiziari della capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi. Nelle prossime settimane, il centrodestra formalizzerà, tramite una votazione all’Aula della Camera, la richiesta di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale contro il Tribunale dei ministri e la procura di Roma, per l’indagine per false dichiarazioni aperta contro Bartolozzi nell’ambito del caso Almasri. La decisione genererà prevedibilmente nuove polemiche da parte dell’opposizione sulla vicenda della liberazione del generale libico.
Come se non bastasse, Bartolozzi rischia di essere indagata per peculato per aver usato indebitamente una motovedetta della Guardia di Finanza per recarsi a Capri, insieme al marito, per assistere a un convegno sulla digitalizzazione della giustizia lo scorso 4 ottobre. Dopo la pubblicazione della notizia, la procura di Napoli avrebbe aperto un fascicolo, al momento ancora senza ipotesi di reato né indagati, per verificare quanto accaduto. Nel caso in cui Bartolozzi venisse indagata, il ministero della Giustizia finirebbe di nuovo nel mirino delle opposizioni.
 
 
                 
                             
                                