Federico Gianassi (Ansa)

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Cosa non torna nella relazione di Gianassi (Pd) sul caso Almasri

Ermes Antonucci

Per l'esponente dem, che ha chiesto di accogliere la richiesta di mandare a processo Nordio, Piantedosi e Mantovano, il governo non difese un interesse pubblico. Ma fu Caravelli, direttore dei servizi segreti per l'estero, a segnalare il pericolo di ritorsioni ai danni degli italiani in Libia

Ci si aspettava (e il centrodestra temeva) una relazione scottante, piena di dettagli compromettenti nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano, provenienti dalle migliaia di atti di indagine segretati e depositati dal Tribunale dei ministri. E invece, alla fine, la relazione sul caso Almasri presentata ieri dal relatore di minoranza Federico Gianassi (Pd) alla Giunta per le autorizzazioni della Camera si limita a cristallizzare le critiche delle opposizioni rispetto all’operato degli esponenti governativi, dicendo “sì” all’autorizzazione a procedere per tutti loro. Più che un atto di “fair play”, nota qualcuno dalla maggioranza, la conferma dell’inesistenza di fantomatici dettagli imbarazzanti. La relazione Gianassi, destinata a essere bocciata dalla Giunta a maggioranza centrodestra e a essere sostituita da una relazione contraria alla richiesta di autorizzazione a procedere per i tre membri del governo, si limita a far proprie la ricostruzione delle fasi del caso Almasri e le conclusioni del Tribunale dei ministri.

 

Per Gianassi, a dispetto di quanto sostenuto da Nordio, Piantedosi e Mantovano in una memoria difensiva congiunta, il rimpatrio del generale libico non è avvenuto né per tutelare un interesse dello stato costituzionalmente rilevante né per perseguire un preminente interesse pubblico, gli unici due casi in cui – secondo la legge costituzionale n. 1 del 1989 – il Parlamento può negare l’autorizzazione a mandare a processo i ministri e le figure “laiche” a loro connesse (come il sottosegretario Mantovano). “Alla luce di quanto emerso – si legge nella relazione – deve affermarsi che i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano non abbiano perseguito né un interesse costituzionalmente rilevante né un preminente interesse pubblico, ma abbiano compiuto una scelta di mero opportunismo politico, fondata su timori generici e non suffragati da evidenze concrete, che mostrano la debolezza del governo italiano dinanzi a bande armate che operano all'estero e che violano i diritti umani commettendo crimini internazionali”.

 

Nella loro memoria, come si ricorderà, i ministri avevano spiegato che tutte le decisioni prese in quei giorni furono atti frutto di “scelte politiche”, assunte per proteggere cittadini italiani e interessi strategici dello stato. In particolare, a guidare le decisioni del governo furono le prospettazioni provenienti dal direttore dell’Aise (i servizi segreti per l’estero), Giovanni Caravelli, sulle ritorsioni che l’arresto di Almasri avrebbe potuto generare ai danni degli italiani in Libia e delle aziende italiane. Nelle sue interlocuzioni col governo, Caravelli aveva sottolineato che Almasri era un elemento di vertice di vertice della forza di deterrenza speciale denominata Rada Force, che operava in quartieri nevralgici della capitale, controllando anche l’aeroporto di Mitiga di Tripoli. Il numero uno dei servizi segreti per l’estero aveva poi aggiunto che, pur non avendo ricevuto notizia di specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani, “c’era molta agitazione e indicatori di possibili manifestazioni o possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani”. Difficile, dunque, negare l’esistenza di un interesse pubblico alla base delle scelte del governo.

 

Di diverso avviso la conclusione di Gianassi, che però risulta caratterizzata da un errore di fondo, condiviso col Tribunale dei ministri, che consiste nella sovrapposizione di disposizioni del nostro codice penale a norme internazionali, secondo la solita tendenza a far trionfare la logica penalistica. Per Gianassi (e il Tribunale dei ministri), nella vicenda non sarebbe emersa la sussistenza di un “pericolo concreto e imminente per cittadini italiani in Libia, trattandosi di timori generici e non di minacce specifiche e attuali”. Ma i requisiti dell’attualità e della concretezza del pericolo vengono ricavati dall’articolo 54 del nostro codice penale, che disciplina lo stato di necessità rispetto alle singole persone, mentre è un atto del 2001 delle Nazioni unite a costituire la norma internazionale di riferimento in tema di stato di necessità degli stati.

 

Un errore che sarà spazzato via dal voto contrario della Giunta e poi dell’Aula della Camera. Anche perché, se non è sufficiente l’allarme dei servizi segreti che lavorano all’estero, non si comprende cosa servirebbe ancora a un governo per adottare le sue scelte per la sicurezza del paese.

 

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]