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L'editoriale del direttore

Milano e carriere separate: due sberle contro la cultura della gogna

Claudio Cerasa

La corsa verso la separazione delle carriere e le lezioni di garantismo dalle inchieste disastrose a Milano hanno un super tratto in comune: la reazione necessaria di un paese contro la dittatura dei pm e la cultura del sospetto

Che cosa hanno in comune le aberrazioni dell’inchiesta sull’urbanistica a Milano, che da indagine che avrebbe dovuto mettere in luce prassi scandalose della politica ha finito per mettere in luce prassi scandalose della giustizia, e il percorso veloce con cui la riforma della giustizia, con tanto di separazione delle carriere, si sta avvicinando alla terza e decisiva lettura al Senato, dopo la quale verrà convocato il referendum dal governo? Apparentemente nulla, si potrebbe pensare, se non il fatto che siano due notizie relative al mondo della giustizia che hanno scaldato nelle ultime settimane le penne dei giornalisti e degli opinionisti – penne che in verità a destra e a sinistra si sono scaldate solo quando le notizie da offrire all’opinione pubblica arrivavano dalle procure, ovvero dall’accusa, e meno quando le notizie da offrire all’opinione pubblica arrivavano dal tribunale, che nel caso del Riesame ha fatto a pezzi le tesi della procura di Milano. Le due storie, effettivamente, viaggiano su binari diversi, hanno protagonisti differenti, agiscono su scenari non coincidenti eppure sono lì di fronte a noi a ricordarci un’emergenza vera, la principale, che riguarda il nostro sistema giudiziario e che riguarda una scelta di campo che in molti si rifiutano di fare ogni volta che vi è la possibilità di scegliere se assecondare oppure combattere un mostro totalizzante e totalitario chiamato circo mediatico-giudiziario.

E, in subordine, se considerare negoziabile oppure no il rispetto di una Carta importante: la Costituzione. Il caso di Milano, da questo punto di vista, è stato fin troppo esemplare, e non occorreva chissà quale scienza, e chissà quale riesame, per capire, come ha giustamente notato il Riesame, che ha scarcerato tutti e dicasi tutti gli indagati importanti per i quali la procura aveva ottenuto con successo l’arresto in prima battuta, per capire che quando un’accusa è fondata su sospetti e suggestioni più che su prove documentali, quando un magistrato usa i teoremi per compensare la mancanza di prove, quando la corruzione viene evocata senza dimostrare il famoso do ut des, quando gli aggettivi e gli avverbi abbondano in una sentenza, quando un magistrato si preoccupa unicamente di dimostrare la propria tesi senza adottare il metodo del ragionevole dubbio, quando succede tutto questo, si diceva, risulta ancora più evidente quanto doloroso e pericoloso sia avere un circo mediatico-giudiziario desideroso di trasformare la cultura del sospetto nell’elemento centrale di un’indagine. 


Il caso Milano, tra le altre cose, ci dice questo, ma ci dice anche altro. Ci dice anche che una società che ha pochi antidoti per difendersi da una magistratura che criminalizza la politica trasformando la ricerca del profitto in una spia utile a segnalare un eventuale reato è una società che ha un bisogno disperato di trovare un modo per combattere quella che è una deriva assoluta che in pochi ancora oggi vogliono vedere: assecondare l’idea che un pm possa avere una funzione eticamente salvifica, che un pm possa essere il vero guardiano dei nostri costumi, e che al magistrato sia consentito di trasformare il diritto penale in un grande laboratorio con cui combattere chi si discosta da determinati canoni di etica pubblica. Per avere sospetti su ciò che è successo nell’inchiesta a Milano non serviva essere degli stregoni dotati di poteri speciali: serviva solo avere a cuore alcuni articoli della nostra Costituzione che dovrebbero suggerire di considerare ogni indagato non un furfante fino a prova contraria ma un cittadino innocente fino a prova contraria. Serviva solo, in altre parole, voler considerare il circo mediatico-giudiziario non come la fonte di una verità assoluta, ma come la fonte di una verità di parte.

E in questo contesto è evidente che il tentativo del governo di provare a riformare la giustizia anche con la scelta brutale di separare le carriere non può non essere visto bene da chiunque abbia a cuore la difesa dello stato di diritto, la difesa del garantismo, la difesa della Costituzione. Osservare l’inchiesta di Milano con un occhio all’articolo 27 – “la responsabilità penale è personale e l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” – avrebbe evitato di alimentare le fauci minacciose di quel mostro chiamato circo mediatico-giudiziario. Osservare la riforma della giustizia senza fette di salame sugli occhi può aiutare a ricordarci l’abc dello stato di diritto. Da un lato avere meno magistrati che faranno carriera grazie alle correnti (Csm eletto a sorteggio) potrebbe offrire meno tentazioni di costruire inchieste ideologiche, fondate più sui teoremi che sulle prove, buone solo per ottenere titoli sui giornali, far contenta una corrente politica e avere carriere più veloci.

Dall’altro lato avere un giudice più terzo, più autonomo, più indipendente non è soltanto una garanzia in più contro le esondazioni della repubblica fondata sullo strapotere dei pm, ma è anche un modo per rafforzare un articolo della Costituzione che i difensori della “Costituzione più bella del mondo” spesso si dimenticano di citare: l’articolo 111, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. E non ci vuole molto a capire che in una società fondata sulle esondazioni delle procure avere giudici ancora più terzi di oggi, correnti un po’ più deboli di oggi, può essere un vaccino non sufficiente ma necessario per provare a portare meno acqua al mulino della cultura del sospetto. Cosa hanno in comune l’inchiesta di Milano e la riforma della giustizia? Poco se si guarda alla superficie. Molto se si guarda alla sostanza: l’importanza di fare passi in avanti urgenti contro un’Italia ostaggio della dittatura del sospetto e della tirannia della gogna. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.