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l'analisi
Corruzione e separazione delle carriere, lezioni dall'inchiesta milanese
L'uso del reato di corruzione per colmare il vuoto lasciato dall’abuso d’ufficio mostra una deriva pan-penalistica ormai intollerabile. Il controllo degli inquirenti sulla pubblica amministrazione impone di ripensare ruolo e garanzie nel processo penale
L’autorevole riflessione sui primi esiti cautelari della indagine milanese sull’urbanistica consegnata ieri a Repubblica dal professore (ed amico) Gian Luigi Gatta coglie una serie di questioni sulle quali può essere utile qualche ulteriore considerazione. Rileva il prof. Gatta che l’esito demolitorio dell’inchiesta da parte del Tribunale del Riesame trae origine – secondo quanto osservato dallo stesso Collegio – da una evidente forzatura investigativa. Ruotando infatti l’indagine intorno al tema del (presunto!) conflitto di interessi, non più di rilievo penale dopo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, i disarmati pm hanno ben pensato di rivestire quella medesima condotta con l’abito, tutt’altro che calzante, del reato di corruzione. Che questo dovesse accadere, veniva non a caso un po’ minacciosamente anticipato già nel corso delle polemiche sorte intorno a quella legge abrogativa, come un esito ineluttabile: attenzione che i pm, privati del prediletto “reato-spia”, buono per aprire sempre e comunque una indagine a carico della Pubblica amministrazione, cercheranno strade creative diverse per raggiungere il medesimo scopo, cioè sindacare l’operato della Pubblica amministrazione. Siamo dunque alle solite: la magistratura inquirente, poco avvezza ad applicare leggi da essa non condivise, si comporta come ha ben stigmatizzato il Tribunale della Libertà meneghino, cioè con una “svilente semplificazione argomentativa” che fa della omessa astensione del pubblico amministratore in (preteso) conflitto la condotta di “atto contrario” ai doveri di ufficio propria della corruzione; e dei profitti lecitamente derivanti da normali attività professionali slegate dalla funzione, la controprestazione del privato corruttore.
Come è evidente, e fuori dallo stretto merito della questione, gli inquirenti (e non è certo una esclusiva meneghina) ritengono impensabile non poter esercitare una attività di controllo, ingerendosi nella attività di una Pubblica amministrazione anche quando la legge, diciamola tutta, non glielo consente. E francamente non si comprende – per tornare al tema del conflitto di interesse – perché dovremmo dolerci di una scopertura penale. Gli atti adottati dalla Pubblica amministrazione in conflitto di interessi sono sindacabili e impugnabili avanti la giustizia amministrativa da chiunque vi abbia interesse: solo l’autentica ossessione pan-penalistica che affligge il paese ci porta a pensare che il giudizio di disvalore di una condotta umana sia riservata alla sola giustizia penale. Non posso invece condividere la considerazione finale del prof. Gatta, e cioè che questi annullamenti del Riesame meneghino (peraltro assestati sulla media annua del 5 per cento dei ricorsi presentati) smentirebbero la necessità della separazione delle carriere. E’ vero l’esatto contrario: i pm, a tutte le latitudini nazionali, possono in assoluta prevalenza contare, nella fase cruciale delle indagini (arresti, sequestri, intercettazioni, rinvii a giudizio) su un gip che, per evidente carenza di terzietà nella sua formazione e nella sua cultura professionale, si limita nella gran parte dei casi a legittimarne acriticamente l’operato; e questo è il più grande vulnus inferto al processo riformato da Vassalli. La separazione delle carriere appare un passo non saprei se risolutivo, ma certo assolutamente indispensabile e prioritario, per invertire questa ormai intollerabile deriva.