foto Ansa

il documento

La memoria del governo su Almasri è un atto di accusa contro Tribunale dei ministri, Cpi e procura di Roma

Ermes Antonucci

Nel documento inviato alla Giunta per le autorizzazioni, Nordio, Piantedosi e Mantovano contestano al Tribunale dei ministri "violazioni di legge gravi e numerose". Il rimpatrio del generale libico "è avvenuto nell'interesse dello Stato". Bordate anche contro la Corte penale internazionale e il procuratore Lo Voi

Più che una memoria difensiva, quello inviato da Nordio, Piantedosi e Mantovano alla Giunta per le autorizzazioni della Camera sul caso Almasri è un atto di accusa pesantissimo che non risparmia nessun attore giudiziario in campo: Tribunale dei ministri, Corte penale internazionale, procura di Roma. Le “bordate” principali riguardano il Tribunale dei ministri, che per i tre esponenti del governo ha chiesto l’autorizzazione a procedere per i reati di favoreggiamento (per tutti), peculato (per Piantedosi e Mantovano) e omissione di atti d’ufficio (per Nordio). L’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di tutti gli indagati, contesta al Tribunale “violazioni di legge così gravi e numerose” che sarebbero sufficienti per dichiarare l’inammissibilità della domanda di autorizzazione senza neanche “entrare nel merito” della stessa.

 

Si parte dal mancato rispetto del termine di novanta giorni per definire il procedimento, secondo quanto previsto dalla legge costituzionale n. 1 del 1989: “Il Tribunale di Roma ha definito la questione dopo oltre sei mesi, senza curarsi di giustificare il ritardo”, si legge nella memoria. Si prosegue con il rifiuto espresso dal Tribunale dei ministri di fronte alla disponibilità del sottosegretario Mantovano (cioè di colui che aveva coordinato le varie fasi della vicenda Almasri) a presentarsi e a fornire tutti i chiarimenti sul caso: “Non esistono precedenti. In qualsiasi giudizio, un indagato che mette per iscritto di aver coordinato ogni passaggio della vicenda oggetto di accertamento, si offre al giudice per esporre la propria difesa, e per contribuire alla ricostruzione e magari alla comprensione di essa, trattandosi di materia non facile, non riceve mai un rifiuto”.

 

L’avvocato Bongiorno contesta poi al Tribunale “l’assoluto difetto di contraddittorio” e la grave decisione di considerare come “versione difensiva degli indagati” il contenuto delle informative rese dai ministri Piantedosi e Nordio al Parlamento: “Un atto di riguardo istituzionale verso il Parlamento è stato trasformato dal Tribunale in un interrogatorio, peraltro – come era ovvio – senza difensore”. Dichiarazioni, dunque, inutilizzabili (anche se vere, si sottolinea), a maggior ragione se si considera che “quando un ministro riferisce alla Camera o al Senato non può rispondere giudizialmente delle dichiarazioni rese”.

 

Nella memoria si accusa poi il Tribunale dei ministri di nutrire un “pregiudizio” ai danni degli esponenti del governo, confermato dallo “screditamento dei testimoni ritenuti non in linea con la tesi accusatoria”, dalla “forzatura delle dichiarazioni dei testimoni che confermerebbero le imputazioni”, in particolare quelle rese dai magistrati che all’epoca lavoravano al ministero della Giustizia, dalla “totale invenzione di elementi fattuali, e quindi lo stravolgimento della realtà”. L’“emblema del pregiudizio” sarebbe costituito dalla decisione di escludere la posizione di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministro Nordio, dalla richiesta di autorizzazione a procedere al Parlamento: “E’ evidente l’assoluta connessione del reato ipotizzato nei suoi confronti (false dichiarazioni al tribunale, ndr) e la vicenda in esame”. 

 

Al di là delle gravi violazioni di metodo, nel merito la memoria difensiva è chiara: tutte le decisioni prese in quei giorni – dalla mancata convalida dell’arresto di Almasri (in concomitanza di una richiesta di estradizione dalla Libia) all’espulsione del generale, fino al volo di stato – sono stati atti frutto di “scelte politiche”. Scelte assunte al massimo livello per proteggere cittadini italiani e interessi strategici dello stato. In particolare, a guidare le decisioni del governo furono le prospettazioni provenienti dal direttore dell’Aise (i servizi segreti per l’estero), Giovanni Caravelli, sulle ritorsioni che l’arresto di Almasri avrebbe potuto generare ai danni degli italiani in Libia e delle aziende italiane (in primis l’Eni). In conclusione, il governo ha agito “per tutelare l’interesse dello stato”.

 

Nella memoria si rintraccia anche una critica alla Corte penale internazionale, che “soltanto dodici giorni dopo l’inizio del giro di Almasri per l’Europa ha emesso il mandato di arresto”. Il generale libico era infatti giunto a Torino dopo essere stato a Londra, Bruxelles, Bonn e Monaco. “La Cpi ha accelerato l’iter per giungere all’emissione del mandato di arresto nei suoi confronti soltanto quando è emerso che egli si stava recando in Italia”, si nota polemicamente.

 

Infine non manca una frecciata al procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, che ha avviato la procedura giudiziaria inviando gli atti al Tribunale dei ministri. Il procedimento è infatti stato segnato da “inammissibili fughe di notizie”, seguite da denunce dello stesso Tribunale. Eppure, nota Bongiorno, “l’interlocutore esclusivo del Tribunale” è stato Lo Voi, il quale è stato anche “il solo ad aver detenuto gli atti al di fuori della cassaforte in uso dal Tribunale”: “Non si ha però notizia di seguiti giudiziari alle denunce del collegio di Roma, sì che al momento appare certa l’impunità di quello che probabilmente è il solo reato che emerge in questa vicenda, cioè la violazione del segreto di indagine”.
 

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]