
(foto Ansa)
Il caso
La Consulta abolisce il taglio al tetto degli stipendi pubblici (evviva) e fa un regalino ai giudici della Consulta
Per salvare l’autonomia della magistratura la Corte costituzionale si alza gli stipendi di circa 100 mila euro
L’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono salve, almeno dal punto di vista economico. La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza n. 135 del 2025 con cui ha dichiarato l’illegittimità del tetto di 240 mila euro agli stipendi pubblici perché, appunto, in violazione degli articoli 108 comma II (indipendenza delle magistrature speciali), 101 comma II (i giudici sono soggetti solo alla legge) e 104 comma I (autonomia e indipendenza della magistratura).
La sentenza, che riguarda il ricorso di un magistrato che faceva parte del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (Cpga) e si era visto tagliare gli emolumenti oltre il limite di 240 mila euro, abbatte una norma del 2014 introdotta dal governo Renzi e ha una ricaduta più ampia, rispetto al perimetro della magistratura, perché riguarda tutta la Pubblica amministrazione. Il tetto agli stipendi pubblici inizialmente fu fissato nel 2011 dal governo Monti, nel pieno della crisi finanziaria dell’Italia: indicava che chiunque lavorasse per la pubblica amministrazione non potesse ricevere un trattamento economico superiore a quello del primo presidente della Corte di Cassazione, che all’epoca era di circa 311 mila euro. Nel 2014, in piena ondata grillina e di lotta antipolitica alla “casta”, il governo Renzi abbassò il limite a 240 mila euro. In questo senso il superamento di una norma populista è positivo, anche se è discutibile il modo in cui ci si arriva.
La Corte costituzionale, nella sentenza, dice che per dieci anni la norma è stata ritenuta legittima in quanto “straordinaria e temporanea” per via della crisi finanziaria, ma ora – che evidentemente secondo i giudici le finanze pubbliche italiane scoppiano di salute – la legge è diventata incostituzionale considerando che i risparmi sono pochi rispetto ai “princìpi costituzionali che ne vengono sacrificati”: l’indipendenza della magistratura, appunto, che è “uno degli architravi dello stato di diritto” e dipende anche dal trattamento economico. Così la Consulta, per garantire l’operatività della legge, ha soppresso il tetto del governo Renzi e ha ripristinato la norma precedente, che equiparava il tetto allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione pari a circa 311 mila euro.
Le toghe interessate dalla sentenza non sono tantissime, si tratta per lo più dei vertici della magistratura, e pertanto tra di esse rientrano proprio i giudici della Corte costituzionale che ha emesso la sentenza. Secondo la legge n. 289 del 2002 i giudici della Corte costituzionale hanno una retribuzione pari a quella del magistrato “investito delle più alte funzioni, aumentato della metà” (al presidente spetta anche un’indennità ulteriore del 20 per cento). Nel 2014, dopo la legge Renzi la Corte – con una decisione autonoma e non dovuta – decise “in considerazione dei sacrifici imposti ai cittadini” di recepire il nuovo indirizzo abbassando la retribuzione dei giudici di circa 105 mila euro, scendendo così a 360 mila euro: il nuovo tetto di 240 mila euro, aumentato della metà (120 mila euro). L’anno scorso il governo Meloni con un dpcm ha alzato il tetto, dopo dieci anni, del 4,8 per cento (pari alla variazione media degli stipendi dei pubblici dipendenti nel 2022-23) facendolo salire a 255 mila euro, e di conseguenza la retribuzione dei giudici costituzionali è aumentata a 382 mila euro (255.127,83 + 127.563,92).
Ora, per effetto della sentenza n.135, i giudici costituzionali si sono alzati lo stipendio a 466 mila euro: i 100 mila euro che si erano tagliati dieci anni fa. Ma non si parli di conflitto d’interessi, perché un po’ come lo Spirito santo guida i cardinali nel Conclave, così lo Spirito delle leggi guida i giudici nella Camera di consiglio. D’altronde, sarebbe stato uno sfregio alla Costituzione se la Consulta, per non dare adito a sospetti sul suo conflitto d’interessi, avesse consentito di continuare a violare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura lasciando gli stipendi dei suoi vertici ad appena 250 mila e rotti euro.

l'editoriale dell'elefantino