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Il procuratore di Parma D'Avino: “I magistrati devono indagare reati, non sindacare politiche”
Nelle carte dell’inchiesta i pm descrivono gli indagati ricorrendo a termini come “avidità”, “spregiudicato faccendiere”, “incline alla corruzione”. “Il linguaggio usato dai pubblici ministeri rischia di apparire non in linea con il principio di tutela della presunzione di innocenza", ci dice il magistrato
“Per come la penso io, la magistratura deve indagare fatti concreti. Non credo sia opportuno che un pubblico ministero arrivi a censurare una scelta della Pubblica amministrazione o addirittura ‘processare’ delle politiche, come una politica urbanistica. I magistrati devono stare sempre attenti alla separazione tra i poteri”. A dirlo al Foglio è il procuratore di Parma, Alfonso D’Avino, pur specificando di non essere in grado di dire “se nel caso di Milano questa esondazione ci sia stata”.
Senza entrare nel caso specifico della maxi inchiesta milanese sull’urbanistica (anche per ovvie questioni di opportunità), D’Avino ribadisce che “la magistratura ha il dovere di sindacare un fatto e verificare se questo costituisce un reato. Di qui a voler criticare una scelta di fondo di un’amministrazione pubblica, però, ce ne passa”. “Purtroppo questo rientra in certe posizioni che sono piuttosto diffuse nella magistratura. Ma la censura di una scelta politica adottata da un’amministrazione pubblica non rientra proprio tra i compiti dell’autorità giudiziaria”, sottolinea il procuratore di Parma.
Al di là del merito delle accuse avanzate dai pm milanesi, D’Avino ammette di essere rimasto “colpito, come tanti, dal profilo espressivo, dal linguaggio utilizzato in certi momenti dai magistrati di Milano”. Nelle carte dell’inchiesta i pm descrivono gli indagati ricorrendo a termini come “avidità”, “spregiudicato faccendiere”, “incline alla corruzione”. “Il linguaggio usato dai pubblici ministeri rischia di apparire non in linea con il principio di tutela della presunzione di innocenza, considerando anche che il decreto legislativo che ha recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza si riferisce non solo alla comunicazione dei magistrati ma anche al contenuto dei provvedimenti giudiziari, come quelli cautelari”, afferma D’Avino. “Talvolta, tuttavia, il ricorso dei pm a una terminologia forte nei provvedimenti cautelari potrebbe essere dettato dalla necessità di dare maggiore forza persuasiva a un’argomentazione”.
All’inizio degli anni 90, D’Avino da magistrato della procura di Napoli si occupò del filone napoletano di Tangentopoli, che sfociò nell’arresto del ministro della Sanità dell’epoca, Francesco De Lorenzo. Da allora le modalità di corruzione dei pubblici ufficiali sono cambiate. Al centro dell’accusa della procura di Milano, oggi, non ci sono tangenti o passaggi di denaro, ma consulenze. Col risultato che le tesi degli inquirenti rischiano di apparire in diversi casi non proprio così solide.
I pm milanesi, infatti, contestano il reato di corruzione a diversi dei 74 indagati nella maxi indagine sull’urbanistica sostenendo che sarebbero stati remunerati per la loro attività di pubblici ufficiali attraverso l’emissione, da parte dei propri studi professionali (in particolare di architettura), di fatture per prestazioni in favore dei soggetti imprenditoriali coinvolti nelle pratiche autorizzative delle opere edilizie. Quindi, a fronte di pagamenti alla luce del sole, e per prestazioni di cui non si contesta l’esistenza, i pm giungono alla conclusione che quelle somme sarebbero in realtà attività di corruzione.
“Occorrono elementi di fatto che consentano di sostenere che l’attività di consulenza costituisca la merce di scambio per l’attività del pubblico ufficiale”, sottolinea D’Avino. “Nulla esclude, in astratto, che la corruzione possa consistere nel commissionare al pubblico ufficiale, che sia anche titolare di un’attività privata, una consulenza. Va provato, però, che vi siano elementi per ritenere che questa consulenza sia stata commissionata per spingere il pubblico ufficiale a svolgere la sua attività, cioè che si sia di fronte a una vera corruzione”, ribadisce il procuratore di Parma.
E’ proprio su questo fronte che, leggendo le carte, l’inchiesta milanese per il momento sembra fare molta fatica a decollare. Le ipotesi di reato sembrano infatti basarsi su una grande logica inquisitoria, fondata più sulla supposizione che su indizi di reato. Le somme ricevute da alcuni indagati d’eccellenza, come Giuseppe Marinoni (ex presidente della Commissione comunale per il paesaggio), tramite i propri studi professionali privati vengono configurate dai pm come corruzione in maniera quasi automatica, senza che ci sia alcun elemento che possa legare l’elargizione di quelle somme a specifiche pratiche di autorizzazione a costruire.
La stessa logica vale per le accuse rivolte a Sala, a cui la procura addebita di aver confermato l’incarico di Marinoni “nella consapevolezza” del conflitto di interessi vissuto da quest’ultimo. Ma gli inquirenti non portano a dimostrazione di questa “consapevolezza” neanche uno straccio di prova.
