Il pm Paolo Storari e il procuratore di Milano Marcello Viola (foto LaPresse)

esondazioni

La giustizia creativa della procura di Milano su Loro Piana & Co.

Ermes Antonucci

“Non si contesta il fatto che i lavoratori debbano godere del giusto grado di tutele, ma il problema è che ciò che viene addebitato alle imprese dalla procura milanese non è previsto sul piano normativo”, evidenzia il giurista Lupària Donati

“So bene che la reazione immediata del cittadino di fronte alle iniziative della procura di Milano contro i presunti casi di sfruttamento dei lavoratori o di frode fiscale non possa che essere positiva. Ma la domanda che bisogna porsi è se sia normale che queste indagini nascano senza che esista una legge dello stato che obblighi specificamente le imprese committenti a effettuare capillari controlli sulle società fornitrici. E se sia normale che non solo a una singola procura, ma addirittura a un singolo pubblico ministero, seppur valente e preparato, venga delegata un’attività di politica criminale così importante che lo stato non è in grado di portare avanti. Il problema è il possibile strabordamento della procura in ambiti non propri, che non è positivo per il sistema istituzionale nel suo complesso”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Luca Lupària Donati, ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Milano, nonché penalista che ha assistito o sta assistendo molte delle società coinvolte nella campagna giudiziaria condotta dal pm milanese Paolo Storari

 

L’ultima azienda a finire nel mirino della procura di Milano è stata Loro Piana, addirittura posta in amministrazione giudiziaria per un anno con l’accusa di aver colposamente agevolato lo sfruttamento dei lavoratori nelle società alle quali ha appaltato parte della sua produzione. Prima di Loro Piana, la “crociata” di Storari ha colpito altri giganti della moda, come Armani, Dior, Alviero Martini e Valentino Bags Lab, e imprese attive nei settori della logistica, della grande distribuzione e della vigilanza privata, come Dhl, Esselunga, Carrefour, Gls, Brt, Uber, SicurItalia, Lidl, Gxo, Amazon, FedEx. L’azione della procura ha comportato l’incasso di oltre 600 milioni di euro attraverso i sequestri preventivi e l’internalizzazione di quasi 50 mila lavoratori nelle aziende. “Non si contesta il fatto che i lavoratori debbano godere del giusto grado di tutele, ma il problema è che ciò che viene addebitato alle imprese dalla procura non è previsto sul piano normativo”, sottolinea Lupària Donati.

 

Questo emerge in maniera molto chiara nelle indagini sui cosiddetti “serbatoi di manodopera” e conseguente ricorso a presunte fatture per operazioni inesistenti, che hanno portato alla montagna di sequestri preventivi. “La procura sostiene che nel momento in cui una società stipula un contratto di appalto con un’azienda fornitrice deve garantire che anche questi fornitori versino le tasse. Ma se la procedura interna non riesce ad  accorgersi di irregolarità, si fa fatica a comprendere come si possa contestare l’evasione del fisco con dolo specifico. L’idea di fondo sembra essere questa: poiché lo stato non sempre è in grado di svolgere i controlli, poiché il sistema che dovrebbe portare a una contestazione tributaria spesso non funziona, allora è la procura ad addebitare sul piano penale alle grandi aziende il compito di svolgere questi controlli”, spiega il giurista. 

 

Tutto ciò crea grande disorientamento e preoccupazione tra le imprese, soprattutto multinazionali. “E’ chiaro che in questo modo viene a mancare la certezza del diritto. Questa incertezza, unita alle lungaggini della giustizia italiana e ai possibili danni di immagine, spinge a preferire la chiusura di un accordo con la procura, anziché difendersi sul piano processuale, anche perché questi accordi non devono passare per il via libera di un giudice”, spiega Lupària Donati.

 

“Le multinazionali vengono trattate un po’ come dei banditi. Invece la realtà è spesso ben diversa. Parliamo di aziende che hanno sistemi di compliance molto avanzati e complessi, e che sono sempre ben disposte a migliorare le loro procedure. Il punto è lo strumento attraverso cui queste best practice dovrebbero essere inoculate: se quello della clava, fatto di inchieste giudiziarie e sequestri, oppure quello del confronto”. 

 

Credo che il procedimento penale non sia il luogo migliore per questa operazione culturale, anche perché fatica a comprendere realtà complesse e un business estremamente dinamico. Altre sono le strade, non quella di un panpenalismo di matrice paternalistica con attori spesso a digiuno del funzionamento concreto delle aziende. Le semplificazioni, in questo settore, sono assai perniciose”, conclude Lupària Donati.

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]