
l'intervista
Non solo Garlasco. "Indagini fatte male, manca l'attività sul campo”, dice il carabiniere che arrestò Riina
Parla Riccardo Ravera: “Le indagini non si fanno con le intercettazioni, ma con l’attività sul territorio”
“Gli errori giudiziari stanno aumentando perché gli inquirenti partono da tesi precostituite, si innamorano delle proprie idee anziché vagliare tutte le ipotesi. Non solo, gli investigatori ormai si affidano soltanto alle tecnologie, tralasciando le indagini tradizionali. Possiamo parlare ormai di indagini fatte a tavolino e sempre meno sul campo”. Lo dice al Foglio Riccardo Ravera, maresciallo dei Carabinieri in congedo che, con il nome in codice Arciere, fece parte della squadra che catturò Totò Riina. Dai casi Erba, Perugia e ora Garlasco emerge in maniera sempre più chiara l’incapacità diffusa di svolgere indagini. “Il controllo del territorio esiste sempre meno, indagini con pedinamenti o osservazioni non se ne fanno quasi più. Oggi ci sono indagini con intercettazioni telefoniche, ambientali e trojan, ma spesso senza attività di riscontro”.
“Emerge una grande superficialità nello svolgimento delle indagini”, ribadisce Ravera. “Si tralascia l’attività sul campo. Quando succede un fatto di cronaca importante negli Stati Uniti arriva l’Fbi che prende in mano la situazione. Noi vogliamo copiare gli americani ma non ne abbiamo le capacità. Noi italiani siamo orgogliosamente invidiati da tutto il mondo per la nostra attività informativa. Dobbiamo mantenere questa strada. E’ ovvio che la tecnologia è importantissima, ma questi strumenti possono solo servire a sostenere le indagini”.
“Ricordo che in Italia abbiamo sradicato il terrorismo e portato ai minimi termini la mafia non con le intercettazioni o con i trojan, ma con il servizio sul campo e il controllo del territorio. Oggi, però, il controllo del territorio non c’è più”, prosegue Ravera. Perché è accaduto? “Per una questione di comodità”, replica. “E’ molto più facile fare un’indagine dall’ufficio, a tavolino, che non stare in mezzo alla strada dalla mattina alla sera, sudando, senza indossare la giacca e la cravatta. Nessuno ha voglia di stare in una macchina o dentro a un furgone tutto il giorno. Ci vuole sacrificio. Io ho svolto questa attività per anni felicemente. Era un sacrificio ma comportava anche felicità, a me e soprattutto agli altri. Per me quello dello ‘sbirro’ è il lavoro più bello del mondo perché permette di aiutare la propria comunità”.
Cosa significa, in concreto, svolgere attività di investigazione sul campo? “Prendiamo l’esempio dell’omicidio Gucci. I colpevoli sono stati scoperti perché i Ris di Parma hanno fatto il loro lavoro ma degli investigatori acuti hanno fatto un’indagine sul campo certosina, riscontrando una marea di testimonianze, intercettazioni e videoregistrazioni di telecamere. Questo significa lavorare sul campo. Il compito dei Ris di Parma è svolgere accertamenti tecnici (Dna, impronte, balistica). Ma gli investigatori devono svolgere un’attività di indagine e operativa. Se non facciamo questo e ci affidiamo solo ai Ris di Parma abbiamo perso”, spiega. “L’indagine tecnica va bene ma deve essere a supporto dell’indagine tradizionale, che è quella sul campo, è quella sudata”.
Sul caso Garlasco sta emergendo uno spaccato sulle indagini svolte diciotto anni fa non proprio esaltante. “Dai giornali emerge che alcuni testimoni all’epoca dei fatti non sono stati sentiti e che delle prove sono state acquisite male o addirittura nascoste”, dice Ravera. “Abbiamo scoperto anche che sono stati arrestati dei carabinieri che facevano parte della sezione di polizia giudiziaria della procura di Pavia e che l’ex procuratore di Pavia è indagato. Sono loro che hanno chiuso la seconda indagine sull’omicidio di Chiara Poggi. Questo fa sorgere il dubbio che le indagini siano state svolte in maniera superficiale. Ora emerge che il colpevole potrebbe essere un altro rispetto ad Alberto Stasi. Io mi auguro, da cittadino italiano, che anche questa volta la procura non prenda un abbaglio. Perché non vorrei che creassimo un’altra vittima innocente”.
“Noi investigatori dobbiamo renderci conto che indaghiamo su esseri umani, non su carte”, sottolinea Ravera. “Non possiamo permetterci di essere superficiali: se lavoriamo bene assicuriamo i colpevoli alla giustizia, ma se lavoriamo male facciamo andare in galera delle persone innocenti”.
Per Ravera occorre porre l’attenzione soprattutto sulla “commistione diabolica tra la polizia giudiziaria e il pubblico ministero”: “L’unica riforma che deve essere fatta non è quella della separazione delle carriere, ma quella della rottura del legame morboso che in molte procure esiste tra polizia giudiziaria e pm. Oggi la polizia giudiziaria scrive le informative sentendosi un pm, e il pm lavora pensando di essere un carabiniere. Ma il magistrato non è capace di fare il carabiniere. Lui deve essere il soggetto che valuta il lavoro della polizia giudiziaria”.