
La villetta di Garlasco (Pavia) dove è stata uccisa Chiara Poggi ( Ansa)
nel bel paese dei pm
Garlasco, Resinovich, Pierina: cosa si agita dietro alle indagini diventate show televisivi
Giornalisti-polemisti, incapaci di raccontare, ma solo di schierarsi. L’Italia vive un’ossessione collettiva per il true crime che confonde cronaca e spettacolo, giustizia e fiction. Il rischio? Trasformare ogni spettatore in un pubblico ministero improvvisato
Siamo tutti pubblici ministeri. Potrebbe essere il titolo di un nuovo gioco di società e farebbe furore, altro che Monopoli reloaded. Tra processi mediatici, inchieste delle “Iene”, perquisizioni in diretta, interrogatori in differita, conduttori e conduttrici che giocano a Vostro Onore, avvocati, criminologi, criminalisti, psicologi, magistrati scodellati in tutti i tg, una ventata di giustizialismo sembra agitare le platee televisive e infiammare i social. Dal caso Garlasco a quello di Rimini, dall’omicidio di Nada Cella alla morte di Liliana Resinovich è un continuo di accuse, illazioni, veleni, gossip, teorie e contro teorie. C’è voluta la morte di un Papa e l’elezione di un altro per mettere a tacere, momentaneamente, questo continuo cicaleggio investigativo ma è durato pochi giorni. Una settimana al massimo senza il noir a colazione, pranzo e cena e poi si ricomincia peggio di prima.
I grandi gialli, si sa, hanno sempre appassionato specie quando il nome della vittima finisce in “a” e c’è un presunto colpevole da assolvere o crocifiggere. I giornali formato lenzuolo degli anni 60, in pieno boom economico, con le pubblicità della Cinquecento e della Moplen, grondavano sangue: i coniugi Bebawy, Christa Wanninger, Wilma Montesi (un fatto di nera destinato a tracimare nella politica), Maria Martirano riempivano pagine su pagine con pezzi di cinque cartelle firmati da giganti della nera e della giudiziaria come Ugo Mannoni, Paolo Graldi, Giuseppe Rosselli, Paolo Zardo, Lino Canu… Una generazione di giornalisti cresciuta e formata da capicronisti carogna col mito delle tre “esse” che fanno vendere i quotidiani: sesso, sangue e soldi. Davanti ai palazzi di giustizia, in attesa della sentenza, si riunivano spesso folle paragonabili a quelle dei pellegrini in attesa della fumata bianca.
E allora? Cos’è cambiato? Semplicemente tutto.
Prendiamo il caso più recente, quello del delitto di Garlasco, tanto per fare un esempio. Sentenza definitiva dopo quattro processi: Alberto Stasi è colpevole, s’è beccato sedici anni, oggi è semilibero, in fondo non gli è andata neanche troppo male, pratica archiviata e stop. Neanche per sogno. Dopo aver tentato inutilmente di far riaprire il processo, gli avvocati del condannato s’improvvisano detective, puntano su un amico di famiglia che era stato lambito dalle indagini come gli altri, appena un testimone da ascoltare e tanti saluti, riescono a impossessarsi del suo Dna tramite una tazzina di caffè, lo fanno analizzare, spediscono i risultati in procura ma niente da fare… La magistratura risponde no grazie.
Qualche anno dopo Andrea Sempio, un po’ appesantito e sballottato dappertutto, con un’espressione da agnello sacrificale, ormai trentasettenne, finisce di nuovo nel tritacarne: indagato per concorso in omicidio. Concorso con chi? Con Stasi che a malapena incontrava per strada? Forse, oppure con ignoti, vedremo. Sta di fatto che l’indagine riparte al galoppo: a ogni interrogatorio c’è un plotone d’esecuzione di telecamere e fotografi, ogni intercettazione viene sciorinata a “Storie Italiane” o “Quarto Grado”, le “Iene”, innocentiste da sempre, ci mettono il carico da undici, scovano supertestimoni rimasti in silenzio per diciotto anni “per paura” (di chi? perché?), riesumano storie già viste, personaggi già passati al setaccio e screditati tornano in auge come supereroi: l’operaio che puntò il dito contro una vicina per poi ammettere di essersi inventato tutto (testuale) o il maresciallo condannato a due anni e sei mesi per falsa testimonianza e depistaggio. Un bel colpo di spugna sul passato e di nuovo in pista mentre all’orizzonte si profila una nuova figura professionale: l’indagato a vita.
E di Liliana Resinovich ne vogliamo parlare? La signora, 62 anni, fisico filiforme, frezza chiara nel caschetto castano, esce di casa il 14 dicembre 2021 e non torna più. La ritrovano morta il 5 gennaio nel parchetto dell’ex ospedale psichiatrico, un posto che conosceva e frequentava, infilata in due sacchi di plastica e soffocata con un sacchetto stretto al collo da un cordino.
Suicidio, sentenziano gli esperti, anomalo quanto volete ma non ci sono dubbi. Motivo? Salta fuori una strana storia di amore clandestino con un ex fidanzato di 83 anni destinato a diventare più popolare di Gabriel Garko, una faccenda di messaggini in codice e visite domestiche per stirare le camice mentre il marito, una specie di alpino con barbetta e coppola sempre in testa, giura che non ne sapeva nulla. La signora, arrivata al bivio drammatico della scelta tra i due uomini, avrebbe scelto la via d’uscita più drammatica. Ma i parenti, comprensibilmente, non ci stanno, respingono la richiesta di non luogo a procedere e l’indagine viene riaperta.
Tre anni di chiacchiere e fuffa, una nuova perizia che smentisce la prima e attesta l’omicidio, il marito indagato trasformato nel presunto uxoricida più odiato d’Italia. Alluvioni di veleno, bombardamenti di insinuazioni mentre i protagonisti della telenovela di Trieste corrono affannosamente da uno studio televisivo all’altro e diventano figure familiari da chiamare, affettuosamente, per nome: Sebastiano, Claudio, Sergio, Gisella. In diretta da “Unomattina” a “Porta a Porta”, passando per tutte le trasmissioni immaginabili da Mediaset a La7. Se qualcuno ha ancora qualche dubbio sul suicidio, soprattutto in considerazione del fatto che la seconda perizia è stata fatta sulle carte, visto che il corpo non esisteva più e che un tecnico ha ammesso di aver provocato per errore una delle fratture analizzate è meglio che taccia: omicidio è politically correct, suicidio diffamazione. Querele a raffica.
Altro giallo da prima pagina e prima visione: Pierina Paganelli, la signora Testimone di Geova pugnalata a morte nel suo garage di Rimini il 4 ottobre dello scorso anno. Un’altra storia di sesso e adulterio: il bel Louis Dassilva, operaio senegalese con un passato di ex militare e un fisico da atleta, sposato con Valeria, se la faceva con Manuela, una relazione di incontri frettolosi e sussurri lubrichi sul pianerottolo. Louis (attenzione, spettatori distratti, non confondiamolo con Loris, fratello di Manuela) finisce in galera e ci resta in attesa del processo. Le due matrone, entrambe con stazza da mediomassimo e sempre fresche di truccoparrucco, battibeccano, si insultano, si minacciano in tivù ma presto l’attenzione si sposta su quello che dovrebbe essere un personaggio secondario della saga: Davide Barzan, capelli pettinati con le bombe a mano, vago accento emiliano (“venghi in studio”), criminalista.
Alzi la mano chi, prima di tutta ’sta storia, sapeva cos’è un criminalista. Non un criminologo, che è un’altra cosa. Vabbè, per dirla in soldoni, è quello che analizza la scena del crimine e fa le sue deduzioni quasi sempre per una delle parti civili. Sta di fatto che Barzan, onnipresente, sorridente, caustico o accigliato, sfiora il record di gradimento di Mike Buongiorno ai bei tempi del “Rischiatutto”, qualcuno lo crede avvocato, qualcuno perito balistico o chissà che altre cose. Poi cade la mannaia delle “Iene” (una delle pochissime trasmissioni a cui si era rifiutato di partecipare, forse l’unica) che lo fanno, letteralmente a pezzi nel giro di due settimane. Sparito. Per sapere che fine ha fatto bisognerebbe rivolgersi alla Sciarelli. Louis il senegalese, intanto, prosciugato da uno sciopero della fame, resta in carcere. Ma torniamo al passato, anzi, rientriamoci di corsa visto che ormai, più che di cold case si sviscerano casi di preistoria criminale, si rivanga addirittura nei misteri degli Anni di piombo: Fausto e Iaio, i militanti del centro sociale Leoncavallo, assassinati nel 1978 o la sparatoria di Cascina Spiotta, 5 giugno 1975, in cui rimasero uccisi la brigatista rossa Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e l’appuntato Giovanni D’Alfonso.
Fascicoli polverosi che quasi si sbriciolano in mano. Reperti conservati alla bell’e meglio, come si faceva allora, senza la minima attenzione a congelare la scena del crimine: ci ritrovi le impronte di poliziotti, magistrati, medici legali, giornalisti, tutti a mani nude a toccare, calpestare, inquinare. Funzionava semplicemente così. A indagare, spesso, magistrati che all’epoca dei fatti imparavano la tabellina del 3 sui banchi della scuola elementare. Ma allora, se la nera è sempre stata traino portante dei media, se è vero che in libreria si compra (poco) solo true crime, se non c’è una serie tv senza serial killer, femminicidio o delitto adolescenziale, la differenza rispetto a mezzo secolo fa in cosa consiste? In fondo il feuilletton non era che un giallo a puntate pubblicato sui giornali e le nobili origini del noir letterario risalgono niente meno che a Edgar Allan Poe con “I delitti della Rue Morgue” o a Fedor Dostoevskij con “Delitto e Castigo”, niente di nuovo sotto il sole…
La differenza c’è ed è enorme: oggi non si racconta, si accusa o si difende. Imparzialità, equidistanza… che roba sono? Ci si schiera. Si partecipa. Si polemizza. Ci si arrabbia. L’ospite televisivo perfetto è quello con la bava alla bocca che digrigna i denti anche perché, come è noto, in televisione si parla per slogan: poche frasi assertive secche come schioppettate prima che ti tolgano la parola o ti interrompano. Provare ad articolare un ragionamento è come cercare di impilare una fila di bicchieri durante un terremoto. Impossibile. E intanto la diretta genera l’indotto: instant book, romanzi a tema, pay tv, produzioni che vendono alle emittenti interminabili trasmissioni a puntate sui grandi gialli, mancano solo i gadget tipo magliette e berrettini. Perfino la politica non disdegna di dare una mano: gettonatissime (in tutti i sensi) le commissioni parlamentari che si occupano di grandi casi irrisolti come Emanuela Orlandi e Simonetta Cesaroni da cui ci si aspettano soluzioni improbabili. Quella sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, tra l’altro, si chiuse con l’indicazione di una pista (il furto delle pizze del film “Salò”) che era stata esaminata e scartata quasi subito dagli investigatori. Farlocca.
E allora? Il problema sono i media? O chi li usa? Forse un ripasso generale di norme deontologiche ci starebbe tutto? E l’Ordine dei giornalisti? Se c’è batta un colpo. E’ possibile raccontare l’interrogatorio della mamma di Sempio senza infliggerle un assalto mediatico tale da farle venire un coccolone? Si può sorvolare su certi dettagli intimi che, prima ancora della privacy offendono il buon senso e la reputazione della vittima? Chi ne approfitta? Avvocati furbastri, esperti e periti a tassametro, conduttori in fregola per l’audience?
Beh, una risposta non ce l’ho… I giornalisti hanno il privilegio di illustrare un problema senza proporre una soluzione e lo rivendico ma, a questo punto, mi tocca buttarla sul personale. Probabile obiezione di chi (grazie di cuore) è arrivato fino a questo punto nella lettura: ma, scusi, lei non è quel tizio che vediamo spesso da Eleonora Daniele o Bruno Vespa e che ha scritto brutti romanzi sul giallo di via Poma, sul Canaro della Magliana, su Mafia capitale, su Emanuela Orlandi? Predica bene e razzola male? Sì. No. Parliamone. Verissimo, chi scrive è un autore true crime. Ma i romanzi sono opere di fantasia, ispirate dalla realtà certamente, ma sempre di fantasia come è scritto in copertina a caratteri cubitali. La cronaca è una cosa, la letteratura un’altra… o almeno così dovrebbe essere. Ma chi se lo ricorda? E’ la tivù, bellezza.