giustizia

Le nuove indagini sulle stragi mafiose ora prendono il tono della storiografia

Ermes Antonucci

“Indagheremo sul perché la mafia smise di mettere le bombe”, annuncia il pm fiorentino Luca Tescaroli. Piuttosto che perseguire eventuali reati, i magistrati sembrano essersi intestati una missione che dovrebbe essere riservata agli storici

"Dobbiamo capire perché nel ’94 la mafia rinunciò alla strategia stragista”. Questo proposito, che potrebbe sembrare il punto di partenza di una ricerca di natura storica, costituisce in realtà l’obiettivo dell’inchiesta che la procura di Firenze sta portando avanti sui mandanti occulti delle bombe del ‘93-‘94, che vede indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. A dichiararlo è stato lo stesso pubblico ministero che si sta occupando delle indagini, Luca Tescaroli, in un’intervista rilasciata a Repubblica in occasione del trentennale dall’attentato compiuto da Cosa nostra il 27 maggio 1993 in Via dei Georgofili a Firenze. Insomma, piuttosto che perseguire eventuali condotte penalmente rilevanti, la procura fiorentina sembra essersi intestata una missione che dovrebbe essere riservata agli storici.

 

E non sembra ormai neanche farne segreto: “I responsabili sono stati individuati e condannati con sentenze passate in giudicato, ma restano alcuni interrogativi: perché cessarono gli attacchi, nel gennaio ’94?”, si è chiesto Tescaroli su Repubblica, aggiungendo che “Cosa nostra era nel pieno delle sue forze, aveva disponibilità di uomini e mezzi per ripetere gli attentati, ma non lo fece”. Il sottinteso dell’intera questione è presto detto: nel 1994 la mafia cessò di compiere attentati stragisti in giro per l’Italia perché salì al potere Silvio Berlusconi, con il suo  amico e braccio destro  Marcello Dell’Utri.

 

Una rivoluzione politica dietro la quale si sarebbe celato anche un nuovo patto occulto tra Cosa nostra e il mondo politico, finalizzato a mettere fine agli attentati in cambio di benefici penali e penitenziari per i mafiosi (che mai nessun pm è riuscito a individuare). “L’attacco ai Georgofili fu voluto per condizionare governo e Parlamento, per ottenere vantaggi sul terreno carcerario e del pentitismo e l’abolizione del carcere duro”, ha dichiarato Tescaroli, indicando però tutta una serie di eventi mai verificatisi (il carcere duro è vivo e vegeto, così come le norme sul pentitismo). 

 

Per dare slancio al teorema accusatorio si è deciso di tingerlo di nero. Uno dei quesiti su cui i pm fiorentini intendono concentrarsi riguarda infatti i presunti contatti tra il boss Antonino Gioè e Paolo Bellini, estremista di Avanguardia nazionale condannato all’ergastolo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. D’altronde proprio la strage di Bologna è tornata in auge negli ultimi tempi, con le polemiche emerse attorno all’elezione di Chiara Colosimo a presidente della commissione Antimafia. Sotto accusa c’è una fotografia che ritrae Colosimo insieme a Luigi Ciavardini, ex componente dei Nuclei armati rivoluzionari, condannato in via definitiva come uno degli esecutori della strage della stazione di Bologna del 1980. Colosimo, che per intenderci nel 1980 non era ancora nata, ha spiegato di aver conosciuto Ciavardini nell’ambito di iniziative organizzate dall’associazione gestita da sua moglie, che si occupa del recupero e del reinserimento dei detenuti. 

 

Insomma, caduta la pista della “trattativa” fra Cosa nostra e gli ufficiali del Ros (tutti assolti in via definitiva), la narrazione antimafiosa si colora di nero, senza alcun senso logico, ma solo per restare agganciati alle polemiche della politica nazionale. Visibilità garantita per la procura di Firenze, che ormai, per stessa ammissione di chi la compone, conduce un’attività di inchiesta storica.