Scontri alla manifestazione degli anarchici (LaPresse)  

Spazio okkupato

Il caso Cospito e quella confusione tra martiri ed eroi

Giacomo Papi

Con il suo sciopero della fame, l'anarchico sta raccogliendo più proseliti di quanti ne abbia mai raggiunti facendo attentati. Ma la disponibilità al martirio non dice nulla della bontà di un ideale. Pensare che un’idea valga più della vita è pericoloso e ha in sé un principio di totalitarismo

C’è una fotografia che non smetterei mai di guardare perché diventa più bella ogni volta. Fu scattata il 28 agosto 1936 a Barcellona durante la Guerra civile spagnola e ritrae un gruppo di giovani anarchici e anarchiche della colonna Aguiluchos, l’ultima delle grandi colonne anarcosindacaliste catalane. A sinistra stanno le ragazze, a destra i ragazzi, e tutti sorridono con i berretti e le bandiere rossonere (la foto è stata colorata). Presto sarebbero stati cancellati dalla violenza dei comunisti, che finirono il lavoro cominciato dai fascisti di Franco. Mi pare che quell’allegria strida con l’immagine tetra degli anarchici negli ultimi vent’anni, quella dei black bloc a Genova nel 2001 e quella di chi manifesta oggi in favore di Alfredo Cospito, l’anarchico in sciopero della fame da mesi contro il regime carcerario del 41-bis. L’anarchia di oggi mi sembra richiamarsi alle lotte di fine Ottocento e inizio Novecento, quelle dei regicidi e degli attentati suicidi come quello cantato nella “Locomotiva” di Francesco Guccini. Nella protesta di Cospito intravedo un afflato al martirio su cui credo sia utile fermarsi a pensare.

Pensare che un’idea, qualunque idea, valga più della vita è pericoloso e ha sempre in sé, mi pare, un principio di totalitarismo: se per affermare la mia fede sono disponibile a morire, allora probabilmente sono disponibile anche a uccidere perché trionfi. Vale per i cristiani, i comunisti, i fascisti, per gli indipendentisti irlandesi, i kamikaze giapponesi e i fondamentalisti islamici. E vale anche per gli anarchici. L’idea che la vita abbia senso soltanto in relazione a un ideale più alto, che sia il dio o il paradiso dei cristiani oppure quello dei musulmani, la dittatura del proletariato, la patria o la libertà degrada la vita e i viventi a uno stadio provvisorio di mediocrità imperfetta, da superare anche a costo di usare violenza contro gli altri e contro se stessi. La conseguenza coerente è che per affermare l’idea sia possibile, anzi doveroso, sbarazzarsi dei tiranni, delle streghe e degli eretici, dei nemici del popolo o della patria. 

Come si vede dagli esempi la disponibilità al martirio non dice nulla della bontà dell’ideale (e questo anche se credo sia giusto mettere radicalmente in discussione il 41-bis). Eppure la disponibilità a mettere in gioco la propria esistenza funziona sempre come una straordinaria macchina di propaganda, forse la più potente in assoluto. La sua forza deriva dalla testimonianza: il martire è disposto a testimoniare con la sua morte quello in cui crede (l’etimologia della parola “martire”, infatti, è “testimone” e il suo uso originario è giuridico, ma slittò in ambito religioso con la persecuzione dei primi cristiani). E la forza dell’esempio del martire deriva dall’equiparazione: la morte è la moneta con cui si attribuisce il valore della causa. Per questa ragione, con il suo sciopero della fame, Alfredo Cospito sta raccogliendo più proseliti di quanti ne abbia mai raggiunti facendo attentati. La sua disponibilità a morire per l’anarchia mostra al mondo che l’anarchia esiste ancora e trasforma il 41-bis in un fattore di reclutamento, cioè nell’opposto di quello per cui è stato creato (l’unica contromossa efficace sarebbe revocarglielo o almeno, per civiltà, dargli la benedetta foto dei genitori che gli viene negata).

Qualcuno ha detto che gli esseri umani non credono alle cause giuste, ma al coraggio di chi le incarna. Accade così che coraggio e disponibilità al martirio vengano confusi e considerati quasi sinonimi, quando invece i termini sono quasi contrari. Il coraggio è il rischio che qualcuno si prende per migliorare il mondo e la vita, la propria o quella degli altri. Il sacrificio di sé, invece, non è un istinto o una reazione: è un’azione frutto di una scelta consapevole. Se il martirio non è volontario l’uso del termine è improprio, per quanto diffuso (se la morte non è consapevolmente cercata e decisa, ma subita, allora non si può parlare di martiri, si deve parlare di vittime. E la corsa a definire martiri chiunque sia vittima di violenza è un tentativo di arruolarli a una causa e di darsi pace dando un significato alla loro morte). Nella scelta del martirio, cioè, la posta in gioco non è una futura vita migliore, ma la morte giusta che retrospettivamente darà un senso alla vita che si è vissuta. L’obiettivo è rendere bella la propria vita, sacrificandola. Per questo, in fondo, sotto a ogni martirio respira il culto della bella morte che, sola, giustifica la vita. Quando non c’è più. Per questo, nell’uso comune, martiri ed eroi si sovrappongono e confondono. Come cantava Guccini nella “Locomotiva” nella fantasia “gli eroi son tutti giovani e belli”. Anche quando non lo sono.

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