Perché il caso Cospito è un test sullo stato di diritto

Claudio Cerasa

La fermezza dello stato contro i violenti è sacra. Ma lo è anche la necessità di  occuparsi dei diritti di un detenuto senza farsi mai influenzare dalla grancassa mediatica

Quando l’opinione pubblica si ritrova in imbarazzo di fronte a un fatto di enorme rilevanza mediatica, com’è il caso dell’anarchico Cospito, di solito si sceglie di affrontare il tema utilizzando una scappatoia standardizzata: evitare gagliardamente di soffermarsi sulla sostanza del fatto, cercare disperatamente una polemica utile a spostare l’attenzione su un dettaglio, mettere a confronto due tesi molto forti legate a quel dettaglio e dedicare le proprie energie alla demolizione di una di queste due tesi, per stare lontani anni luce dalla ciccia di quel fatto. Da questo punto di vista, il caso Cospito è, per così dire, da manuale. E in questi giorni, la storia dell’anarchico che da cento giorni è in sciopero della fame per protestare contro il suo 41-bis, sciopero accompagnato, da alcune settimane, da manifestazioni violente di molti anarchici, è diventata una storia all’interno della quale si confrontano due dialettiche diverse, entrambe distanti dalla ciccia.

  

Nella prima dialettica, vi è un dibattito sulla necessità o meno di rispondere con fermezza alle manifestazioni violente degli anarchici. Nella seconda, vi è un dibattito sulla necessità o meno che la politica “faccia qualcosa”, sia nella misura di chiedere alle istituzioni un intervento per modificare il 41-bis o persino nella misura  di far chiedere la grazia all’anarchico Cospito (di solito coloro che chiedono alla politica di intervenire sulle sentenze della magistratura sono gli stessi che chiedono alla politica di non interferire con le sentenze della magistratura).

 

In entrambi i casi, però, la vera questione si perde di vista. E provare a illuminare quella che ci sembra la ciccia può essere utile. Il punto è questo. Il punto non è chiedersi se lo stato debba essere fermo con i violenti. Il punto non è chiedersi se lo stato debba trattare con gli anarchici. Il punto è chiedersi se lo stato di diritto si possa affermare senza retrocedere sui diritti di un detenuto. Il punto è rivendicare l’idea che in uno stato di diritto la fermezza dello stato si afferma perseguendo chi commette i reati ma evitando anche che le regole del diritto vengano dettate dalla grancassa mediatica.

   
Nel primo caso, la questione è ovvia: no, non si tratta con i violenti. Nel secondo caso la questione è meno ovvia e vale la pena riflettere un istante intorno a una domanda che non riguarda solo il caso Cospito. Cosa può fare lo stato per non perdere la faccia qualora la Cassazione, in un’udienza fissata il 7 marzo ma che a quanto risulta al Foglio dovrebbe essere anticipata a febbraio, dovesse riscontrare un errore nell’aver spedito al 41-bis l’anarchico Cospito, uno dei leader della Fai, la Federazione anarchica informale, in carcere da dieci anni a seguito della gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi? Dovrebbe far finta di nulla, per evitare di compiere la stessa scelta che auspicano oggi Cospito e i suoi follower violenti, o dovrebbe avere il coraggio di utilizzare la sua fermezza nell’essere contemporaneamente contro ogni genere di violenza, compresa l’eventuale errata assegnazione di un carcere duro?

 

Il dibattito che manca, sepolto dalla fuffa, non è dunque se il 41-bis sia o no una misura necessaria, certo che lo è. Ma è se è chiaro oppure no che la fermezza dello stato è nell’affermazione dello stato di diritto non nella sua negazione. E se sia legittimo oppure no ragionare, eventualmente, su quelli che possono essere stati, in questi anni, alcuni abusi commessi nell’assegnazione del 41-bis (e il fatto che in un paese come l’Italia in cui le persone condannate all’ergastolo sono 204 mentre le persone a cui è stato assegnato il 41-bis sono 745 potrebbe essere uno spunto di riflessione a proposito di proporzionalità della pena). Nel caso specifico di Cospito, le riflessioni sulla necessità o meno di mantenere il detenuto al 41-bis potrebbero presto essere di attualità non per ragioni legate alle rivendicazioni degli anarchici ma per ragioni legate a dati di realtà.

 

Un dato in particolare: un elemento di novità comparso nelle motivazioni di una sentenza fornite dalla Corte di assise di Roma all’inizio di quest’anno. La sentenza è al centro della ragione per cui Cospito, lo scorso maggio, è finito al 41-bis, e si riferisce a un dettaglio della vicenda giudiziaria. Nel 2020, i Carabinieri del Ros hanno smantellato una cellula anarco-insurrezionalista di Roma, che aveva base al Bencivenga occupato. Quella cellula è stata riconosciuta come responsabile dell’attentato alla stazione dei Carabinieri di San Giovanni, compiuto il 7 dicembre 2017. Secondo le accuse, il gruppo si rifaceva ai dettami strategici di Alfredo Cospito. E il fatto che un detenuto facente parte di un’associazione riuscisse a dare ordini alla propria organizzazione dal carcere è stato uno dei requisiti fondamentali per far scattare il così detto carcere duro.

  

L’elemento nuovo però riguarda ora le motivazioni della sentenza sul Bencivenga, divenute pubbliche all’inizio del 2023, e in base a quelle motivazioni, si legge nella sentenza, non si evidenzia “alcuna pretesa del Cospito di imporre all’esterno un pensiero unico sul concetto di ‘azione’ quale azione armata e distruttrice, né sono obiettivamente rintracciabili direttive che in tal senso egli fornisca dal carcere al giovane anarchico, tantomeno risposte adesive e di concreta attuazione di un tale metodo di lotta che vengano comunicate dal Cospito ai compagni all’esterno”.

  

Comunque andrà a finire, il caso Cospito è un test sul nostro sistema giudiziario per molte ragioni. Ma quello forse più importante è questo: capire o no se l’opinione pubblica sia consapevole che la fermezza dello stato si afferma sia perseguendo chi commette i reati sia evitando che le regole dello stato di diritto vengano dettate dall’agenda tossica della grancassa mediatica.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.