Foto ANSA / LUIGI SALSINI

Pena “giusta” per un giusto processo

Giovanni Fiandaca

Un obiettivo arduo da raggiungere: al di là dei criteri teorici, nella realtà la commisurazione della pena risulta spesso oscura e poco comprensibile, condizionata da fattori emotivi. Il caso Lucano e il paradosso di Sciascia

In un messaggio inviato a un convegno dell’Anm di metà ottobre, il presidente della Repubblica ha affermato che occorrono un profondo processo riformatore e, nel contempo, una rigenerazione etica e culturale della magistratura. Aggiungendo: “L’indipendenza della magistratura è un elemento cardine della nostra società democratica e si fonda sull’alto livello di preparazione professionale, che va accompagnata dalla trasparenza delle condotte personali e dalla comprensibilità dell’azione giudiziaria”. 

Ritengo che queste parole siano meritevoli di attenzione in particolare per il riferimento, meno consueto, all’esigenza che l’azione giudiziaria risulti “comprensibile” da parte dei cittadini. Mattarella la ha esplicitata alludendo, verosimilmente, a casi più o meno recenti di sentenze percepite come ingiuste o poco convincenti da parte del pubblico e anche di alcuni settori del mondo politico-giornalistico. Pensiamo ad esempio alla vicenda processuale dell’ex sindaco Mimmo Lucano, commentata anche su queste colonne (cfr. l’articolo di Adriano Sofri). E’ sperabile che la futura conoscenza delle motivazioni della sentenza di primo grado consenta di ben comprendete le ragioni poste a fondamento della condanna. Ma, a prescindere da questa aspettativa di chiarimento, l’aspetto più sconcertante riguarda – come da più parti si è rilevato – il sorprendente divario tra la pena richiesta dalla pubblica accusa (7 anni e 11 mesi) e quella applicata dal tribunale (13 anni e due mesi): praticamente una pena detentiva raddoppiata. Come mai?

Il caso Lucano e il paradosso di Sciascia

Questo interrogativo solleva una questione tecnicamente complessa, che ben trascende il caso Lucano e che rinvia appunto ai criteri in base ai quali i giudici di volta in vota determinano la pena concreta da applicare agli autori di reato. La questione è tale che qui, anche per limiti di spazio, non può essere affrontata in tutta la sua complessità. In estrema sintesi, do per scontata una premessa: è impossibile individuare con certezza e, dunque, calcolare con precisione la pena davvero “giusta” in rapporto a ogni singolo caso. Viceversa, è di solito più facile fare – sia pure con una certa approssimazione – esperienza del contrario, cioè percepire i possibili casi (tanto più se macroscopici) di pena “ingiusta”, di pena cioè sproporzionata per eccesso o per difetto rispetto alla gravità del reato commesso. Ciò premesso, è pur vero che non mancano criteri “teorici” di commisurazione della sanzione penale, elaborati in sede dottrinale con pretese di scientificità e con ritenuto ancoraggio costituzionale. Ma purtroppo, anche su questo terreno, tra professori di diritto e giudici esiste nel nostro paese più divorzio che concordanza, per cui la prassi giudiziaria tende ad adottare orientamenti suoi propri, ma con una aggravante: cioè pubblici ministeri e giudici sono soliti dedicare alla pena e alla sua concreta determinazione un livello di attenzione e uno  spazio argomentativo assai ridotti, e non di rado essi si limitano a pochi accenni riproponendo pigre formulette di stile che fanno sintetico richiamo dei criteri indicati nell’art. 133 del codice penale. Così stando le cose, la commisurazione giudiziale della pena finisce, nella prassi concreta, non solo col risultare oscura o poco trasparente, ma pure col risentire di fattori anche emotivi di condizionamento – connessi alla sensibilità personale del singolo giudicante – che sfuggono a un controllo razionale e che prescindono, altresì, dal fare riferimento alla finalità rieducativa che la Costituzione espressamente assegna alle sanzioni penali. Ora, a maggior ragione perché sembra in ogni caso ineliminabile dal punire una qualche componente di irrazionalità, è mia opinione che i gestori della Scuola della magistratura di Scandicci dovrebbero tentare di promuovere un mutamento di atteggiamento culturale nei giudici riservando in maniera stabile, nell’ambito delle principali attività formative, un adeguato spazio al tema della pena e della sua commisurazione giudiziale tra teoria e prassi.

 

Un altro caso controverso, caratterizzato anch’esso da un (quasi) raddoppio della sanzione detentiva inflitta dal tribunale (cinque anni) rispetto a quella richiesta dall’accusa (due anni e qualche mese), è quello relativo al rimpatrio nel 2013 della moglie e della figlia del dissidente politico kazako, e al tempo stesso banchiere ricercato per reati finanziari, Mukhtar Ablyazov: rimpatrio qualificato dal tribunale di Perugia, con enfasi drammatizzante, “sequestro di persona di eccezionale gravità”, addirittura un “rapimento di Stato”, di cui sono stati dichiarati  responsabili – in concorso con altri – due valorosi e apprezzatissimi dirigenti di polizia come Renato Cortese e Maurizio Improta (l’inizio della fase di appello è previsto per il prossimo gennaio). Ma, al di là del rigore sanzionatorio, in questa vicenda appaiono a monte più che dubbi i presupposti, sia in fatto sia in diritto, che hanno indotto a emettere una condanna a titolo appunto di sequestro di persona (per di più, con aggiunta di ipotesi di falsità ideologica). La relativa motivazione scritta, disponibile dal gennaio di quest’anno e articolata in 283 pagine, mostra infatti una quantità sorprendente di punti deboli, già puntualmente evidenziati in sede tecnica (cfr. i rilievi critici di F. Galluzzo in Penale. Diritto e procedura, 7/9/2021) e, altresì, a livello giornalistico persino in qualche quotidiano di tendenziale vocazione manettara (cfr. l’articolo di A. Massari nel Fatto quotidiano del 13 aprile 2021). Come spiegare questa netta divergenza tra enfasi criminalizzatrice e debolezza motivazionale? A voler essere un poco maliziosi, si potrebbe anche supporre che l’estremismo retorico nell’etichettare la gravità dei fatti contestati serva a coprire la mancanza o insufficienza di valide argomentazioni giuridiche a sostegno della condanna. Comunque sia, il tribunale ipotizza scenari e impiega un lessico che alludono a disegni criminosi di portata internazionale, con conseguente (presunto) generico asservimento del governo italiano a quello del Kazakistan e connessa complicità dei due rinomati dirigenti di polizia di cui sopra: tutto questo senza, però, minimamente riuscire ad ancorare le suggestive ipotesi complottistiche a concreti riscontri dotati di precisa e univoca valenza probatoria. Insomma, sembrerebbe questo un altro caso emblematico di poco controllato utilizzo giudiziale del paradigma del complotto, per qualche verso analogo – mutatis mutandis – a quello ben più celebre del processo palermitano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, tornato di attualità grazie alla recente sentenza di appello che ha quasi del tutto ribaltato la condanna in primo grado. 

Sui possibili motivi che spingono innanzitutto i pubblici ministeri a sospettare complotti come chiavi di lettura di vicende giudiziarie complicate che fuoriescono dalla fisiologia giudiziaria, mi sono soffermato in un precedente articolo cui rinvio (cfr. il Foglio del 7 aprile 2021). Mi limito qui a rilevare che, per quanto si sia anche sostenuto che è la forma mentis dell’inquisitore a inclinare da sempre verso la paranoia, altra cosa è che una eventuale inclinazione simil-paranoide della pubblica accusa venga assecondata da un organo giudicante eccessivamente condiscendente e compiacente, e perciò assai poco “terzo” rispetto all’impostazione accusatoria. E’ per questo che mi chiedo – tra l’altro – se non sarebbe opportuno che sempre la Scuola della magistratura includa nei piani di formazione professionale anche corsi, da  affidare a esperti di psicologia scientifica e di scienze cognitive, destinati a spiegare i meccanismi mentali (anche inconsci o subconsci) che stanno alla base delle “precomprensioni”, dei pregiudizi e delle trappole cognitive, che – come nel caso di un poco meditato o affrettato uso del paradigma del complotto, ma il discorso ha una portata più generale – rischiano di inficiare l’interpretazione e l’accertamento probatorio dei fatti oggetto di giudizio.

Tutto ciò premesso, è forse superfluo esplicitare che l’esigenza di “comprensibilità” dell’azione giudiziaria, mentre di certo comporta interpretazioni giudiziali per quanto possibile vicine al senso comune, non può invece equivalere alla pretesa che i giudici decidano soltanto in base alle aspettative della pubblica opinione. Come ha lucidamente rilevato Leonardo Sciascia in anni ormai lontani, in proposito il tormentoso punto nodale è costituito dal “paradosso – doloroso per quanto sia – che non si può giudicare tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”. Cercare di conciliare la duplice e contraddittoria esigenza di controllare razionalmente le pulsioni punitive (o i pregiudizi innocentisti) del pubblico e l’esigenza di emettere sentenze non troppo lontane dalle aspettative popolari (o delle stesse vittime), è pertanto un problema che può essere affrontato, non senza dilemmi e incertezze, da caso a caso. Sapendo, però, in anticipo che non sempre risulterà possibile rinvenire accettabili e, soprattutto, condivisi punti di equilibrio.

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