piccola posta

La condanna di Mimmo Lucano è il totale ripudio del buon senso

Adriano Sofri

La vanità della giustizia dietro l’assurda sentenza (suicida, o peggio) sull'ex sindaco di Riace

Che sciocchezze si dicono sulle sentenze. “Non si commentano!” – figurarsi. Poi succede davvero che paiano incommentabili, che lascino, a tutta prima, senza parole. Bastonate fra capo e collo, da tramortire. Forse, ci si dice, bisogna smettere con la pretesa di capire. Forse sforzarsi di capire è un cedimento all’assurdo, gli restituisce una razionalità. Eravamo stati sbalorditi dall’oltranza di una pubblica accusa che aveva preteso per Mimmo Lucano una condanna a 7 anni e 11 mesi – 8 anni, insomma, addolciti come i prezzi al mercato: 7 euro e 99 centesimi. Poi il presidente ha letto, prima le singole tariffe, poi il totale: 13 anni e 2 mesi

    
Poco dopo era già su YouTube, guardavo l’uomo che leggeva, chissà che la fisionomia, il taglio dei capelli, desse qualche indizio. Guardavo la giudice donna e quello uomo, gli altri due del collegio giudicante, speravo di rintracciare dei sentimenti a latere: si erano trattenuti quattro giorni in camera di consiglio, avranno almeno avuto dissensi, aspri magari, dopotutto avevano alle spalle non solo un’opinione pubblica commossa e turbata ma pronunciamenti giudiziari i più diversi e contrastanti, misure gravi prese e revocate.

      

Ma i giudici a latere stanno in silenzio alla lettura della sentenza, e hanno la mascherina, così non traspariva almeno dalle loro facce un’amarezza, un disappunto – si trattava della vita di un uomo e delle altre 26 persone giudicate con lui. Mi è balenato un pensiero risolutivo: è una sentenza suicida. Il diritto ha infatti escogitato stratagemmi capaci di capovolgerne l’assurdità. Possibile? No, purtroppo no: dev’essere ancora peggio di così.

   
Io (e anche voi che non avete termini di paragone strettamente personali) non fatico affatto a capire, a sentire, che cosa abbia provato Mimmo Lucano mentre gli leggevano la sentenza, capo d’imputazione dietro capo d’imputazione (otto ne aveva addosso, un campione di sollevamento pesi: associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Lo capisco Mimmo, lo sento, gli sto a fianco, per quel che vale: un po’ vale. Non è su di lui che mi interrogo, l’ho già fatto da quando questa burrasca si è alzata e l’ha scaraventato giù dal prestigio che si era meritato con la frazione alta del suo paesello, e aveva roso d’invidia e di livore i tanti umani troppo umani dai pomeriggi grigi, offesi dalle classifiche che facevano di Mimmo un eroe in carne e ossa, e di Riace, il giacimento degli eroi di bronzo, il suo regno. Se mi propongo nonostante tutto di provare a capire, è sul giudice che devo interrogarmi, quello che ha letto la sentenza, quello che è stato attento a raddoppiare la richiesta esosa della pubblica accusa, ma non esattamente, che sarebbe stato grossolano, 15 anni e 10 mesi, no: 13 anni e 2 mesi, la piccola asimmetria è condizione di grazia. 

   
Si chiama Fulvio Accurso, e io sono un topo di Google, miniera che non tradisce. Ha 58 anni, è nato a Reggio Calabria, è stato pubblico ministero a Reggio, giudice e poi presidente della sezione penale a Locri, poi presidente facente funzione del tribunale fino a febbraio 2021. Allora, dopo una vacanza di quasi un anno (il precedente era stato promosso a Catanzaro) il Csm vota all’unanimità per il successore: la giudice Gabriella Reillo, del tribunale di Catanzaro. Voci locali si levano a denunciare indignate che non un solo voto sia andato al giudice Accurso, candidato naturale all’incarico che già ricopre di fatto. La nominata Reillo (altra voce locale) “rinuncia all’incarico, dimostrando un’enorme sensibilità per la situazione che si stava venendo a creare, e il Consiglio superiore della magistratura è tornato sui suoi passi chiudendo questa situazione incresciosa nell’unico modo possibile: quello giusto”. A maggio Accurso, con la controfirma di Cartabia, è presidente effettivo del tribunale, nel quale sta guidando da tempo il processo a Lucano Domenico, ex sindaco di Riace. Le cronache nazionali, intermittenti come sempre, segnalano una mossa falsa del pm, Michele Permunian, che denuncia in aula la candidatura di Lucano alle elezioni regionali, a conferma del suo disegno di sfruttare le supposte malversazioni per la propria ambizione elettorale (Mimmo Lucano, fuori dal breve confine di Riace, aveva sempre rifiutato candidature appetitose, compresa quella all’Europarlamento). Qui non si fa politica, si fa un processo, tagliò corto Accurso, e fece ben sperare. 

  
Ma lasciatemi procedere nell’improvvisato bottino di notizie sull’autore primo della sentenza che ieri ha tramortito gli italiani (e gli stranieri) non incattiviti. Nel dicembre 2017 gli studenti del Liceo “Mazzini” di Locri incontrano nel loro auditorium “il dott. Fulvio Accurso, che ci ha fatto emozionare, raccontandoci del progetto ‘I colori della Legalità’”. Accurso li ammonisce a non pensare ai detenuti come a un “noi e voi”, ragazze e ragazzi visiteranno il carcere e pubblicheranno un giornalino, “Oltre le sbarre”. L’antefatto, riferisce un conoscente di Accurso, coach di professione, è che lui “è un uomo di legge, ma anche un artista. Ama dipingere e circondarsi di musica, colori e bellezza. Il giorno in cui si è insediato ha capito che era inaccettabile per lui lavorare in locali fatiscenti e degradati, come le strutture a cui siamo abituati. Nel giro di poche ore Fulvio ha cominciato a far fiorire le sue idee, proponendo un restauro a ‘costo zero’ per lo stato. L’idea è stata accolta con entusiasmo dal presidente del tribunale e hanno aderito con lo stesso fervore il direttore delle carceri di Locri, l’ordine degli avvocati, l’amministrazione comunale, una compagnia di assicurazioni e tutto il personale del tribunale. Un’idea geniale, una colletta tra magistrati, un contributo degli avvocati per i materiali, l’assicurazione che ha coperto i rischi, il tifo del personale del tribunale e l’opera di quattro giovani detenuti, tutti a fine pena e su base volontaria, hanno dato vita al progetto ‘I colori della legalità’. Il tribunale di Locri, a seguito di questo progetto, è stato inserito quale ‘primo tribunale d’Italia tra le best practices del Csm’ per operazioni di tal genere”. Per parte sua, il giudice Accurso testimonia: “Ho chiesto ai quattro uomini: siete felici?”. “Siamo felicissimi dottore!” (e il Csm, poi, avrebbe votato all’unanimità l’altra candidata: com’è ingiusta la vita!).

  
Sto mettendo in buona luce il giudice Fulvio Accurso? Me ne guardo. E tanto meno sto ripetendo la cantilena della vita che è chiara e scura. Casomai, nel nostro caso, si mostrerebbe bianca e nera. Nerissima è la pagina che il collegio di Locri ha appena firmato sulla pelle del bravo sindaco (e dei coimputati, troppo trascurati dalle cronache: la compagna di Lucano, Lemlem Tesfahun, 4 anni e 10 mesi; Cosimina Ierinò, segretaria dell’associazione Città Futura, 8 anni e 10 mesi; Annamaria Maiolo, presidentessa di Oltre Lampedusa, 6 anni, come Salvatore Romeo e Jerry Tornese, e così via). 

  
La condanna sarebbe stata penosa, salvo che si fosse ridotta al riconoscimento simbolico che, nell’intento di far bene e supplire all’incapacità di accoglienza pubblica, Lucano e la sua gente avevano trasgredito regolamenti e pastoie: come nella vicenda delle cooperative per i rifiuti e i loro favolosi asinelli. Sarebbe suonata odiosa, perché inutilmente crudele ed esemplare, se avesse accolto la richiesta della pubblica accusa. Ma la condanna pressoché raddoppiata non è solo il ripudio del buon senso confrontato con la lettera della legge, né la severità feroce che respinge come intrusa umanità e buon senso: è una bravata. Per far riuscire il calcolo, ha dovuto negare agli imputati, incensurati, le stesse attenuanti generiche, e negare la ovvia continuazione del reato. Perché? Bisognerà che lo spieghi lui, il giudice, e immagino che vorrà tenere per sé la stesura delle motivazioni, dopotutto è la gran festa della sua vita. Ma le motivazioni non basteranno. Dev’esserci qualcosa d’altro in una simile messinscena della giustizia, in una simile rivalsa sul suo pubblico tramonto. Sapete che cos’è una sentenza suicida. E’ una sentenza deliberatamente assurda, e assurdamente motivata, per garantirsi l’annullamento nei gradi successivi. Un inganno vergognoso, di solito perpetrato per rivalersi da giudici togati e soprattutto dai giudici popolari dell’assise che abbiano imposto un’assoluzione non voluta dal presidente. Qui, dove tutto sembra ribaltato, la sentenza sfida l’assurdità a vantaggio dell’oltranza. Fama del piccolo sindaco, popolarità nazionale, classifiche internazionali che lo mettono al secondo posto fra i sindaci del pianeta, al quarantesimo dei cento personaggi più influenti, alla candidatura al Nobel: una carriera che va schiacciata col doppio della tracotanza. Ha creduto di “dominare” Riace (così l’accusa) rendendola extraterritoriale, facendosi la sua propria legge, procurando matrimoni di donne straniere e facendo ripulire il paese coi somari, fottendosene dello stato. E lo stato gli ha dato ripetutamente ragione; un gip (nessun lucro, solo superficialità e malcostume), una volta su due una prefettura (autorità che quando non sapevano dove sbattere la testa gli mandavano migranti cui provvedere con tanto di ringraziamenti ed elogi), una volta la Cassazione (che l’ha fatto tornare a Riace), ma quello è uno stato che periclita. Lo stato sono io, 13 anni e 2 mesi, tredici anni e due mesi. E lui è Mimmo Lucano, piccolo, percosso, attonito. Non ha intascato un solo denaro per sé, in tutta questa vicenda, hanno dovuto ammettere. Ma ha lucrato per la reputazione, per la vanità… Oggi, di sé, dice di sentirsi finito. Finito Mimmo, è il momento malinconico di interrogarsi sulla reputazione, sulla vanità, di un giudice, di un collegio di giudici. E il famoso prepotere delle procure ha avuto anche lui la sua lezione: doppiato, anche lui.

 
Riace non c’è più. Il successore di Lucano era ineleggibile, restò appena il tempo di cancellare un’intitolazione a Peppino Impastato. “Xenia”, hanno chiamato in procura l’operazione di pulizia etica di Riace. Un fatuo ricordo di Magna Grecia, di Locri Epizefiri. Disambiguazione: c’è una marca di bibite e cracker, una nave, un’auto, dei villaggi anglosassoni, un film, una termoplastica, un nome proprio, un asteroide, una raccolta di epigrammi di Marziale, una di Montale. “Xenia” erano i cibi che si mettevano nelle stanze degli ospiti dopo il primo giorno di accoglienza, perché si sentissero come a casa loro. Pollame, uova, verdura, frutta e altri prodotti della campagna. E dipinti, che ornassero le domuncolae o le dispense degli ospitati. E’ Vitruvio, sembra la descrizione di Riace com’era. Come non sarà più. Fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia, vada in malora il mondo. 
 

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