Giuseppe Pignatone (foto LaPresse)

Leggere il libro di Pignatone su Mafia capitale e non credere ai propri occhi

Ermes Antonucci

Una complicata ma appassionata arrampicata sugli specchi da parte dell'ex procuratore di Roma sull'inchiesta Mondo di mezzo

Se sbagliare è umano e perseverare è diabolico, l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sembra aver scelto almeno dal punto di vista letterario di percorrere la seconda strada. E questo nonostante da due anni – cioè dal pensionamento da magistrato – egli ricopra la prestigiosa carica di presidente del tribunale vaticano. Lo si comprende sfogliando le pagine del suo nuovo libro, intitolato “Fare giustizia”, pubblicato da pochi giorni per Laterza. La parte più interessante del volume è certamente quella in cui Pignatone torna sul più clamoroso insuccesso giudiziario ottenuto dalla procura capitolina sotto la sua guida (dal 2012 al 2019): quello sul processo “Mafia Capitale”. Come ormai noto, nell’ottobre 2019 la corte di Cassazione ha sconfessato definitivamente la tesi avanzata dalla procura di Pignatone, cioè che dal 2011 al 2014 l’attività del comune di Roma fosse stata condizionata da un’associazione mafiosa guidata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi. I giudici hanno accertato l’esistenza di un vasto fenomeno corruttivo nella gestione degli appalti del comune di Roma, ma hanno escluso il carattere mafioso dell’associazione contestata agli imputati, affermando l’esistenza di due distinte associazioni per delinquere semplici: una dedita prevalentemente a reati di estorsione, un’altra impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici. Insomma, “Mafia Capitale” non era mafia, ma corruzione. In questo modo i giudici non hanno soltanto ribaltato la precedente sentenza della corte d’appello di Roma e confermato invece le conclusioni raggiunte dal tribunale (che per primo aveva escluso l’accusa di mafia), ma hanno spazzato via anche la narrazione sul “comune di Roma gestito dalla mafia” che per molti anni – grazie anche a una moltitudine di inchieste giornalistiche, libri e film – ha esposto la capitale d’Italia e il nostro Paese al ludibrio del mondo.

Una sconfitta giudiziaria comprensibilmente difficile da digerire per Pignatone, che infatti nel suo ultimo libro dedica un breve paragrafo alle “nuove mafie e Mafia capitale”. Anziché ammettere di aver sbagliato a ipotizzare l’esistenza di un’associazione mafiosa, l’ex procuratore di Roma se la prende con i giudici di Cassazione che, nel negare l’esistenza di “Mafia Capitale”, non avrebbero preso in considerazione i provvedimenti con cui nel 2015, durante la fase cautelare, la stessa Cassazione aveva confermato inizialmente l’impostazione accusatoria. Per Pignatone, quei provvedimenti contenevano “la posizione più avanzata mai espressa in giurisprudenza sulla possibile rilevanza dell’attività corruttiva per integrare la capacità di intimidazione mafiosa”, eppure – prosegue l’ex procuratore di Roma – “questa posizione così avanzata non è stata presa in considerazione (anche se nemmeno espressamente contestata) dalla sentenza del 2019”.

Si è di fronte a una complicata arrampicata sugli specchi. Nella sentenza del 2019, infatti, la corte di Cassazione boccia la precedente sentenza della corte d’appello proprio perché, per affermare l’esistenza di un’associazione mafiosa, i giudici di appello si sono limitati a recuperare i ragionamenti seguiti dalla Cassazione in fase cautelare. Ma, sottolineano gli ermellini, “è di massima evidenza che la decisione di questa Corte in fase cautelare era intervenuta sulla scorta di fatti ben diversi, quanto alla consistenza della presunta banda mafiosa, essendo state prospettate circostanze di fatto che, nel processo, non sono state dimostrate”. In altre parole, “i fatti posti alla base della decisione cautelare di questa Corte non sono affatto i medesimi emersi in dibattimento ed accertati dal primo giudice ovvero diversamente accertati dalla Corte di appello”. I fatti emersi dal dibattimento, infatti, portano a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: “Non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma ‘fama’ criminale mafiosa”.

Prendersela con la Cassazione per non aver confermato dei ragionamenti avanzati durante la fase delle indagini, come fa Pignatone è come protestare con l’arbitro perché nel risultato finale di una partita non ha tenuto conto dei gol segnati da una squadra durante il riscaldamento. Peccato che nel frattempo la partita, il dibattimento, si sia svolto, e che il risultato finale sia stato chiaro: “Mafia Capitale” non era mafia.

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