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Dei delitti e del carcere sull'onda emotiva del caso Brusca

Giovanni Fiandaca

Pena socialmente utile contro pena “giusta”: perché la libertà dell’ex mafioso ha rimescolato le carte

La recente scarcerazione per fine-pena del boss “pentito” Giovanni Brusca ha provocato profondo turbamento e reazioni indignate. Non solo tra i familiari delle vittime, ma anche nella pubblica opinione e in alcuni settori del mondo politico. Sino al punto di indurre a sollevare l’interrogativo se non siano maturati i tempi per rivedere la legge sulla collaborazione giudiziaria. Lo sconcerto era del resto prevedibile. Anche perché corrisponde ormai a una sorta di legge statistica che a ogni occasione di interruzione, o mitigazione del rigore detentivo di condannati mafiosi (persino molto anziani e gravemente ammalati), seguano subito preoccupazione e allarme. Contribuisce ad alimentare questi sentimenti la stampa scritta e parlata, che – specie da quando il paradigma vittimario ha preso il sopravvento nello scenario pubblico – tende, più che a registrare, a sollecitare e drammatizzare le reazioni negative dei parenti delle vittime (a cominciare dalle figure più note o simbolicamente rilevanti) con interviste e altre tecniche comunicative atte a provocare e diffondere forti ondate di emotività. E da queste correnti emotive finiscono, purtroppo, col farsi coinvolgere anche esponenti politico-istituzionali, cui può accadere di lasciarsi andare a esternazioni estemporanee destinate però a essere corrette o ridimensionate non appena torna a prevalere, dopo qualche giorno, una più fredda capacità di giudizio.

 

D’altra parte, è anche vero che il tema del pentitismo è problematico e divisivo non da ora, e lo comprova la sua lunga storia non a tutti nota. Come attesta tra altri lo storico Salvatore Lupo, casi di mafiosi disposti a fornire agli organi inquirenti informazioni sulla struttura della mafia, sulle attività delle cosche e sui crimini commessi dagli affiliati, per riceverne in cambio benefici di vario genere o per sgominare indirettamente gruppi avversari, sono documentabili sin dall’Ottocento postunitario; e ciò – per dirla con Lupo – “in barba ai loro codici presunti intangibili e alla loro altrettanto presunta ripulsa etica alla collaborazione con lo Stato”. E, proprio in considerazione del carattere tutt’altro che disinteressato di questa disponibilità a parlare, si è sin da allora affacciato il tormentoso dubbio se la collaborazione fosse sincera o strumentale e se, di conseguenza, le informazioni date fossero a loro volta genuine o manipolate. Un dubbio, questo, che è andato ciclicamente riproponendosi lungo parecchi decenni, provocando contrapposizioni e accese polemiche in particolare quando le dichiarazioni dei collaboratori hanno coinvolto politici di rango o, più in generale, persone del ceto dirigente.

 

Nulla di nuovo sotto il sole, potremmo dunque dire. Se è così, c’è allora da chiedersi se il contesto contingente in cui si è verificato il ritorno in libertà di Brusca sia connotato da tali elementi di novità, da giustificare una rinnovata riflessione pubblica sulla collaborazione giudiziaria in vista di eventuali modifiche della legge che in atto la regola. Ora, considerando le motivazioni delle più recenti reazioni negative, al centro delle contestazioni non sembra esservi la credibilità dei collaboratori di giustizia sotto l’aspetto della veridicità delle loro dichiarazioni (anche se non può non apparire alquanto sospetta, ad esempio, la quantità via via crescente di personaggi “fantasmatici”, di presunta appartenenza all’oscuro e torbido sottosuolo dei soliti servizi segreti immancabilmente deviati, immessi a scoppio ritardato nella ribalta giudiziaria da pentiti vecchi o nuovi,  pronti – guarda caso – a recuperare la memoria al momento processuale da loro ritenuto opportuno).

 

Piuttosto, sembra posta in discussione soprattutto la “giustizia” di un trattamento punitivo che, per effetto delle attenuanti previste a favore di chi collabora (e di altri sconti più in generale preveduti  dall’ordinamento penitenziario per ogni detenuto che tenga buona condotta in carcere), consente a un pluriassassino mafioso di riacquistare la libertà dopo 25 anni di galera: cioè un tempo detentivo che viene ora percepito come sproporzionato per difetto in rapporto alla quantità e gravità delle azioni criminose di cui, nel nostro caso, lo stesso Brusca ha ammesso di essere autore. Evidentemente, si tratta di una sproporzione che viene avvertita in chiave di giustizia “retributiva”, vale a dire del modello di giustizia tradizionalmente più radicato nel campo dei delitti e delle pene: secondo questo modello, la pena “giusta” sarebbe appunto quella commisurata, nei termini di una proporzione il più possibile stretta, all’entità della colpevolezza individuale; per cui, quanto più grave è il reato commesso, tanto più severa dovrebbe risultare la risposta sanzionatoria. Ma è possibile fissare un rapporto di precisa corrispondenza tra uno o più delitti e la pena che l’autore merita?

 

In realtà, né il più grande scienziato vivente del diritto penale, né il legislatore più saggio, né il giudice più equilibrato (ammesso che queste figure ideali esistano oggi da qualche parte in carne e ossa!) sarebbero in grado di additare in proposito parametri certi e univoci di riferimento. Come i giuristi di mestiere da gran tempo sanno, la determinazione della pena meritata è sempre influenzata da un irriducibile coefficiente di arbitrio, che rende intrinsecamente problematica la valutazione relativa al trattamento punitivo più “giusto”: vengono infatti in gioco anche fattori emotivi e irrazionali, non affioranti con chiarezza alla coscienza, che entrano in concorrenza, e talora in conflitto con le istanze della razionalità punitiva di matrice illuminista, oggi ri-declinabili nell’orizzonte del costituzionalismo penale. Non a caso, nell’ambito della riflessione penalistica degli ultimi decenni l’approccio retribuzionista al punire è progressivamente entrato in crisi a causa, non ultimo, delle sue componenti emotive: ed è stato soppiantato da concezioni che pongono in primo piano, al posto della pena “giusta” in sé considerata, la pena socialmente utile, cioè concepita quale strumento prevalentemente orientato all’obiettivo della prevenzione dei reati. A ben vedere, in questa prospettiva finalizzata alla prevenzione ricevono certamente una giustificazione razionale anche gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia: come sappiamo, l’ordinamento li prevede infatti proprio allo scopo di contrastare la sopravvivenza e/o di prevenire l’espansione del fenomeno mafioso premiando, con alleggerimenti del carico sanzionatorio, quegli associati che fanno rivelazioni utili a scompaginare le organizzazioni criminali.

 

Questa filosofia di fondo sottostante all’istituto della collaborazione necessita davvero di essere oggi ridimensionata per riflesso di riemergenti sentimenti retribuzionisti? Certo, questa riemersione è abbastanza comprensibile, quale immediata reazione umana di fronte alla uscita di prigione di un boia mafioso responsabile, oltre che di molti omicidi, addirittura di un crudelissimo strangolamento di un ragazzino figlio di un altro mafioso che aveva deciso di pentirsi. Tuttavia, bisogna guardarsi dal rischio che la giustificata indignazione per l’enormità di un crimine come questo sfoci, troppo affrettatamente, in una cosiddetta fallacia di generalizzazione. Un buon legislatore, prima di porre mano a una eventuale revisione in senso restrittivo della normativa premiale, dovrebbe piuttosto, innanzitutto, vagliare attentamente l’entità complessiva della minaccia mafiosa che continua a incombere sul nostro paese, tenendo conto dell’insieme delle associazioni criminali che in atto vi operano. E’ verificabile una forte regressione della suddetta minaccia? In realtà, dalle relazioni periodiche degli organi investigativi di polizia seguitiamo ad apprendere che, mentre sotto certi aspetti è caduta in crisi Cosa nostra siciliana, lo stesso non è accaduto rispetto alla camorra e soprattutto alla ’ndrangheta (la quale ultima, anzi, avrebbe continuato a espandersi anche a causa della assai minore presenza al suo interno di membri disposti a collaborare). Se ciò impedisce di sostenere che il fenomeno delle mafie nel loro insieme sia in regressione, e se esistono invece segnali che inducono a considerare in crescita la capacità in particolare di qualche organizzazione mafiosa di espandersi ulteriormente, diagnosticare una sopravvenuta minore utilità dei collaboratori di giustizia sarebbe frutto di un giudizio poco aderente a quella che verosimilmente sembra essere la realtà effettuale.

 

Ma per altro verso superficiale e affrettato sarebbe, a ben guardare, sopravvalutare i bisogni emotivi di punizione dura e intransigente che, subito dopo la scarcerazione di Brusca, abbiamo sentito venir fuori anche dalle bocche di uomini politici di primo piano, con espressioni del tipo “un pugno nello stomaco” o una “schifezza” et similia, peraltro convergentemente pronunciate dal progressista Enrico Letta e dal leghista Matteo Salvini. Che uomini politici importanti per il ruolo protagonistico rivestito si lascino andare a espressioni del genere, facendosi portavoce – sinceramente o strumentalmente – di pur comprensibili sentimenti di rabbia, indignazione e risentimento di non poche vittime di mafia, non sembra in effetti un atteggiamento consono a una democrazia matura. Al contrario, si tratta di un atteggiamento non solo troppo precipitoso nell’assecondare pulsioni emotive momentanee, ma anche eccessivamente cedevole al paradigma vittimario, di per sé compatibile con una cultura più populista che liberale. E non solo perché una giustizia penale liberale, o meglio – diremmo oggi – costituzionalmente orientata, dovrebbe puntare a un bilanciamento equilibrato delle contrapposte esigenze e dei concorrenti diritti delle vittime e degli autori di reato. Ma per una ragione ulteriore, e per certi versi più profonda.

 

Pur con tutta la comprensione empatica e col massimo rispetto per le sofferenze psicologiche e le ferite morali patite da chi subisce le conseguenze di gravi crimini, un dato non dovrebbe essere trascurato ed è questo: gli studi di psicologia della vittima mettono cioè bene in evidenza che il cuore delle vittime è attraversato da sentimenti complessi, ambivalenti e non di rado contraddittori; e questo complicato magma interiore contribuisce a spiegare perché il castigo anche più severo dell’autore del fatto criminoso, lungi dal fungere da rimedio risolutivo, rechi soltanto un sollievo superficiale e poco duraturo. Da qui l’idea, avanzata già da qualche tempo da alcuni studiosi esperti della questione, che occorrerebbe creare un nuovo binario per la riabilitazione delle vittime, da affiancare a quello già esistente per la rieducazione dei rei: beninteso, un nuovo binario da affidare alla competenza di psicologi e assistenti sociali tecnicamente in grado di aiutare a elaborare i danni psicologici – che talvolta raggiungono la soglia di veri e propri traumi – provocati dalle azioni delittuose.

 

Inoltre, non è forse superfluo rilevare che, come dimostrano significative esperienze compiute anche in Italia, ai fini della “elaborazione del lutto” conseguente al divenire vittime di reati può risultare comparativamente più adatto, rispetto alla tradizionale giustizia punitiva, quel diverso modello di giustizia che da noi prende il nome di giustizia riparativa.
 

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