Bruti Liberati: "Ora i magistrati s'impegnino per recuperare la credibilità perduta"

Chi governa i giudici? Domande urgenti su Csm e Consiglio di stato

Edmondo Bruti Liberati*

Sessant’anni di storia del Csm presentano luci ed ombre, che le recenti penose vicende dei casi Palamara e Davigo non possono cancellare. Ma anche problemi di fondo che non si possono eludere

La notizia: la giustizia amministrativa ha annullato la delibera del Csm con la quale Michele Prestipino è stato nominato Procuratore della Repubblica di Roma. Per una volta contravvengo alla regola alla quale mi sono sempre attenuto: prima leggere e studiare accuratamente il provvedimento. L’intervento del giudice amministrativo sulle delibere del Csm, con alterne conclusioni (Cantone a Perugia Ok, Prestipino a Roma No) pone un problema di fondo, al di là dei casi specifici sui quali non intendo pronunziarmi. Il principio dell’indipendenza della magistratura lascia aperta la questione “Chi governa i giudici?”.

 

 

Il rispetto della divisione dei poteri in un ordinamento democratico preclude un intervento degli altri poteri sul merito delle decisioni. Ma a nulla varrebbe ove si consentisse all’esecutivo di disporre a suo piacimento della nomina e della carriera dei giudici. La prima garanzia è stata quella della nomina a vita “quam diu bene se gesserint” dell’Act of Settlement emanato dal Parlamento inglese nel 1701 ripreso nella versione inglese during good behaviour all’art.3 della Costituzione americana del 1789. Un ulteriore sviluppo: inamovibilità dalla sede. Ma non basta ove la magistratura sia organizzata come corpo burocratico, con accesso in giovane età e sistema di carriera all'interno di una organizzazione gerarchica. L’inamovibilità è una “garanzia puramente statica”, come ha scritto il costituzionalista francese Thierry Renoux, ma occorrono “garanzie dinamiche poste contro l'eventuale arbitrio dell'esecutivo, che gestisce la carriera”, introducendo così il tema della istituzione Csm.

 

In mancanza di una istituzione di garanzia, quale era la reale situazione, pur in presenza del principio di indipendenza dell’ordine giudiziario nella nostra Italia liberale? “Al governo restano i seguenti poteri sulla magistratura. Dei pretori dispone liberamente, senza alcuna garanzia. I magistrati sono tutti nominati dal governo... è il governo che determina le funzioni a cui ciascun magistrato può essere addetto... e sceglie i giudici che devono presso i tribunali adempiere le funzioni di giudici istruttori, nel qual modo ha in mano sua l’istruzione dei processi penali e così l’onore e la libertà dei cittadini”. Così Giovanni Giolitti in un famoso discorso tenuto agli elettori di Caraglio nel 1897.

 

In Italia (e in molta parte d’Europa), nel modello tradizionale in vigore negli ultimi due secoli nei sistemi democratici, il “governo della magistratura” era stato affidato al governo, attraverso il ministro della Giustizia. In Francia, fino a pochi anni addietro, la nomina dei Procuratori generali era di competenza esclusiva del Consiglio dei Ministri. La storia ci mostra quanto questo modello abbia reso problematica l’effettività di quel principio di indipendenza del potere giudiziario pure formalmente proclamato. In Italia il regime fascista, nel momento in cui struttura l’assetto totalitario, ritiene necessario legiferare sul sistema penale (con i codici penale e di procedura penale), sui poteri di polizia (con il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e sul sistema carcerario (con il regolamento penitenziario). Il fascismo non ritiene urgente legiferare in materia di “governo della magistratura” e vi provvederà solo nel 1942 quando il regime è ormai in declino.

 

Il modello italiano di Csm “forte” è stato punto di riferimento per i paesi mediterranei che hanno riconquistato la democrazia, come la Spagna e il Portogallo, e altrettanto lo è stato successivamente per i paesi dell’Europa centrale e dell’est dopo la caduta del muro di Berlino. Affidare il “governo della magistratura” ad un organismo elettivo, a composizione mista con laici e togati, è stata la “sfida” che la nostra Costituzione del 1948 ha assunto. Una “sfida” per il governo che si priva di una leva di intervento tradizionale, una “sfida” per la magistratura chiamata in qualche misura ad autogovernarsi, una “sfida” per il Parlamento che è chiamato a comporre il Csm, in misura minoritaria, ma tutt’altro che irrilevante, e a guidarlo con il Vicepresidente laico.

 

Sessant’anni di storia del Csm presentano luci ed ombre, che le recenti penose vicende dei casi Palamara e Davigo non possono cancellare. Ma anche problemi di fondo che non si possono eludere. Il ministro della Giustizia nel pieno esercizio della discrezionalità politica gestiva la carriera dei magistrati, nominava i dirigenti degli uffici. L’affidare il “governo della magistratura” a una istituzione come il Csm è una raffinata e inedita costruzione istituzionale. Nell’esercizio delle sue attribuzioni il Csm non può godere della discrezionalità politica del ministro, deve attenersi alle regole fissate dal legislatore con le disposizioni dell’ordinamento giudiziario. Il tema più caldo è quello delle nomine per gli incarichi direttivi. Le norme legislative pongono criteri generali, ma poi si tratta di decidere volta per volta. L’obbiettivo dell’“uomo giusto al posto giusto” non è il risultato di automatismi. Le caratteristiche e le specializzazioni dei magistrati sono diversissime. Il magistrato “giusto” per un incarico direttivo può non esserlo per altro incarico direttivo.

 

E’ banale rammentare che per la procura di Palermo o di Reggio Calabria viene in primo piano l'esperienza sulla criminalità organizzata mafiosa, mentre per la procura di Milano potrebbe esserlo la competenza in materia di reati economici e societari. Per ciascun incarico direttivo non è pensabile che vi sia una graduatoria assoluta di merito, magari a punteggio, tra i diversi aspiranti, che possono essere tutti buoni o ottimi magistrati ma con caratteristiche  diverse. Per di più le idee su quale sia l’uomo “giusto” per quel posto possono essere legittimamente diverse tra i vari componenti togati e laici del Csm chiamati a decidere. I diversi legittimi punti di vista in un organo elettivo devono trovare un punto di convergenza, se vogliamo un “accordo”. Il risultato può essere l’unanimità o anche una nomina a maggioranza, spesso giornalisticamente evocata come “spaccatura”, quando non è altro che una eventualità fisiologica in un organo elettivo. La motivazione della scelta deve essere trasparente assunzione di responsabilità di scelte che presentano sempre margini di opinabilità.

 

La pressione, dall’esterno e anche da parte di settori della magistratura, affinché il Csm si dia una somma di apparentemente rigidi criteri e pesi automatici non può sopprimere la assunzione di responsabilità e ottiene solo il risultato di rimettere la scelta discrezionale nelle mani del giudice amministrativo. Altro è il modello scelto dalla Costituzione.

 

Non vi è bisogno di scomodare il noto aforisma di Churchill sulla democrazia come forma di governo. La realtà si incarica di mostrarci che l’irrigidimento autoritario che, in diversa misura, ha caratterizzato alcuni paesi, da Polonia a Ungheria a Turchia, ha  provocato un ridislocamento dei poteri di governo della magistratura da organi del tipo Consiglio Superiore o Consiglio di Giustizia al Ministro della Giustizia e al governo, direttamente o per il tramite di nuovi organismi  controllati dall’esecutivo. Il recupero di credibilità del Csm, il “voltare pagina” richiesto dal presidente Mattarella già il 21 giugno 2019, non passa per l’elusione della responsabilità delle scelte: è nelle mani di tutti i componenti del Csm togati e laici. Ma lo è soprattutto nelle mani dei magistrati. Sta a loro essere capaci di rifuggire da pratiche deteriori e ritrovare l’orgoglio del confronto tra posizioni ideali nell’associazionismo giudiziario, rivitalizzandone una storia non priva di momenti elevati, e nel Csm, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione.

 

*Edmondo Bruti Liberati, già procuratore capo della Repubblica a Milano ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati

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