Il virus mette a nudo tutte le fragilità della giustizia civile italiana

Eduardo Savarese

Le condizioni di lavoro nei tribunali, il numero dei processi, la loro stasi e il mantra dell'udienza telematica come unica soluzione

Il virus attacca il corpo individuale e spesso lo costringe a cure drammaticamente invasive. Esso colpisce di riflesso i corpi sociali, ne induce la radiografia ma, quanto alle cure, ha abilitato il torpore della sospensione (ancora per poco): anche nella giustizia civile, che intanto disvela (almeno) quattro fragilità.

 

1) Le condizioni di lavoro nei tribunali: strutture vecchie, condizioni igieniche allucinanti, piccoli spazi sovraffollati: basti pensare al contagio nei tribunali di Milano e Napoli.

2) Il sovraffollamento non dipende dal gusto di fare vita sociale come nel Circolo Pickwick, ma dal numero di processi. Troppi, per giornata di udienza.

3) I decreti legge non hanno saputo fare altro che sospendere. Lo si capisce nella fase iniziale (fino al 23 marzo). La stasi totale fino all’11 maggio è meno comprensibile: dovevano, e devono, individuarsi tipologie di processo civile trattabili in via straordinaria da casa e da subito, senza demandare la determinazione delle regole processuali a fumosi decreti e protocolli di singoli presidenti di tribunale e consigli forensi. Le regole del processo devono essere generali e uniformi.

4) Dato il mantra che ogni crisi è opportunità, già si pensa all’udienza telematica come stabile soluzione del futuro.

 

E il portato antropologico, sociologico e psicologico di tale scelta? Vecchi arnesi culturali, occorre badare all’Efficienza, Nome Supremo davanti al quale, come per san Paolo quello del Cristo, ogni ginocchio si piega sulla terra e sotto terra. Ma come si pratica il vero culto dell’Efficienza? E’ ovvio, sui numeri: più sentenze, più decreti, più udienze. Dimenticando che, di fronte ai numeri, sta a noi chiederci: perché questi numeri? Facciamo qualche esempio. Il report CEPEJ 2018 dice che l’Italia migliora costantemente. Scorrendo il rapporto, si arriva però al dato degli affari civili pendenti al 31.12.16 per ogni cento abitanti. Il numero italiano è secondo solo alla Croazia e nettamente superiore a tutti gli altri paesi raffrontati. Perché? Il report non lo dice perché non lo sa. E noi, lo sappiamo?

 

Passiamo a un altro numero: dai programmi di gestione dei tribunali italiani, la quantità annua di sentenze civili varia molto: 300, 200, 150, 120. Comunque numeri alti. Una sentenza ogni tre giorni è mediamente ragionevole, una al giorno è roba da pasticceria (quante ne fa un giudice tedesco, belga o austriaco?). Ma questa variabilità esige – è evidente – di definire uno standard unico a livello nazionale, e dimostra che la geografia giudiziaria (nelle piante organiche degli uffici) è irrazionale. Lo sappiamo tutti, eppure nessuno ci mette mano.

 

Altri numeri: nel 2012 vennero istituiti i tribunali delle imprese per velocizzare i tempi di decisione di controversie nevralgiche per l’economia. Già sono in affanno. A Napoli, sono sette i giudici assegnati alla sezione. Ogni causa consta di centinaia e centinaia di pagine di atti, complessi e con milioni di euro in gioco. Per affrontare brillantemente i processi in materia economica delle province campane, sette giudici: sottostima? Direi.

 

In conclusione: se inseguiamo i numeri, resteremo ciechi e sordi. I numeri vanno interpretati con la domanda: perché questo numero? E dalle risposte si trarranno le cure (variegate e su diversi fronti). Ma lasciamo il culto della sola efficienza quantitativa alle pagine di Arcipelago Gulag. A meno che non vogliamo ridurre la giustizia civile a un mero asset dotato di un prezzo di scambio (sempre più irrisorio). E questo è un altro discorso: di qualità, nella tutela effettiva dei diritti e nella tenuta dello stato di diritto, tutta al ribasso.

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