I complici del khomeinismo giudiziario

Claudio Cerasa

Esperimento. Togliete i nomi all’indagine. Spersonalizzate. Ricostruite la storia. E capirete così la gravità di chi si rifiuta di raccontare la controinchiesta sul caso Consip per quello che è: il simbolo di una democrazia a rischio destabilizzazione

In un paese normale, in un paese cioè non del tutto anestetizzato dalle pratiche della gogna e dagli orrori della repubblica delle procure, al centro del dibattito politico, in questi giorni, non ci dovrebbero essere le soporifere polemiche relative a un emendamento approvato alla Camera sui collegi del Trentino Alto Adige, ma ci dovrebbero essere i dettagli di una storia incredibile grazie alla quale un pezzo d’Italia sta scoprendo esattamente cosa si intende quando si parla di totalitarismo giudiziario. Provate per un istante a non personalizzare la storia e a raccontarla per quello che è. Un magistrato molto importante di una procura molto importante coordina le indagini su un’inchiesta molto importante all’interno della quale succedono alcune cose a loro volta decisamente importanti.

 

Facciamo una piccola sintesi, prima di trarre conclusioni. Un capitano dei carabinieri è accusato di falso aggravato per aver trascritto in maniera erronea alcuni contenuti di un’intercettazione. Nel caso in questione l’intercettato era il padre dell’ex presidente del Consiglio e secondo una prima ricostruzione, offerta dai magistrati che stanno indagando sul capitano dei carabinieri, la trascrizione erronea non è avvenuta per una svista casuale del carabiniere, ma è avvenuta allo scopo di manipolare il contenuto di quella intercettazione, grazie alla quale lo stesso carabiniere che agiva sulla base di una delega offerta a lui da un magistrato molto importante era convinto di avere la chiave giusta per poter arrestare il padre del presidente del Consiglio. Pochi giorni prima di inserire l’intercettazione manipolata nell’informativa consegnata alla procura della repubblica, il carabiniere in questione era stato messo all’erta, via sms, da un collega sull’errore che sarebbe stata l’attribuzione al padre dell’ex presidente del Consiglio di fatti non certificati da nessuna telefonata. Ma nonostante quell’avvertimento il carabiniere scelse di inserire quell’intercettazione nell’informativa. Sempre lo stesso carabiniere, nella stessa informativa relativa alla stessa indagine coordinata sempre dallo stesso pm, è accusato di un altro fatto molto grave, certificato con prove documentali. In un passaggio della stessa informativa compare un riferimento esplicito ad alcune persone legate ai servizi segreti che avrebbero pedinato i carabinieri nel corso delle loro indagini. Il problema è che le persone dei servizi che avrebbero cercato di pedinare i carabinieri non erano uomini dei servizi utilizzati dall’allora presidente del Consiglio per depistare le indagini, ma erano delle semplici persone che abitavano a due passi dal luogo in cui i carabinieri stavano svolgendo le indagini. Risultato: la procura che sta indagando sempre sul carabiniere accusato di manipolazione sostiene che i carabinieri che hanno detto di essere spiati dai servizi sapevano di non essere spiati dai servizi, ma “al fine di accreditare la tesi del coinvolgimento di personaggi asseritamente appartenenti ai servizi segreti omettevano scientemente informazioni ottenute al seguito delle indagini espedite”. 

 

 

Lo stesso carabiniere accusato di aver manipolato alcune intercettazioni decisive per dimostrare il coinvolgimento del padre dell’ex presidente del Consiglio ha ammesso infine di fronte ai magistrati che lo stanno indagando che “la necessità di compilare un capitolo specifico, inerente al coinvolgimento di personaggi legati ai servizi segreti, fu a me rappresentata come utile direttamente” dal magistrato da cui il carabiniere aveva ricevuto la delega per indagare (niente nomi, sapete di chi stiamo parlando, non vogliamo personalizzare, ci mancherebbe). Sarebbe bello poterci fermare qui e non ricordare che lo stesso film visto oggi sull’indagine in questione è un film già visto qualche mese fa in un’altra indagine con gli stessi protagonisti (leggete Luciano Capone sul Foglio di oggi). Ma il quadro di destabilizzazione che emerge all’interno di questa contro inchiesta – quadro quasi da golpetto di stato o quanto meno di colpetto allo stato se fosse confermata la versione della procura di Roma – ci dice altre cose gravi che devono essere raccontate per mettere a fuoco in modo più deciso l’Italia del khomeinismo giudiziario.

 

E dalla storia di un’intercettazione manipolata si arriva rapidamente alla storia di un’altra intercettazione altrettanto inquietante che riguarda sempre la stessa inchiesta e che riguarda sempre gli stessi protagonisti: una telefonata tra l’ex presidente del Consiglio e suo padre penalmente irrilevante – non trascritta da nessuna procura, non presente in nessun atto, pubblicata in modo probabilmente illegale (c’è un’inchiesta in corso) in violazione del segreto d’ufficio da un giornale specializzato nell’avere in anteprima veline delle procure – che diventa uno strumento di lotta politica a vantaggio di un partito che costruisce una sua campagna di consenso contro l’allora presidente del Consiglio sulla base di un’intercettazione illegale che matura nell’ambito della stessa inchiesta in cui un carabiniere ha confessato di aver provato ad arrestare il padre dell’ex presidente del Consiglio sulla base di un’intercettazione manipolata. In un paese normale, non del tutto anestetizzato dalle pratiche della gogna e capace di riconoscere quali sono i veri poteri forti (senza quasi) contro i quali vale la pena spendere energie, la stampa libera avrebbe fatto la stessa operazione che abbiamo tentato in questo articolo e si sarebbe concentrata non sui nomi dello scandalo ma sullo scandalo di una repubblica a rischio di destabilizzazione per via giudiziaria. In cui le intercettazioni non sono più utilizzate come “strumenti di verifica della prova” ma diventano prima di tutto ingranaggi che smuovono il circo mediatico giudiziario.

 

Non sappiamo come finirà la contro inchiesta sul caso Consip (avete capito di cosa stavamo parlando). Non sappiamo come finirà il capitano Scafarto. Non sappiamo quanto tempo ci vorrà prima che una procura generale della Repubblica riesca a dimostrare che nell’ambito di un’indagine i carabinieri che indagano non hanno autonomia ma devono sempre riferire a colui che offre loro la delega dell’indagine. Non sappiamo quanto tempo ci vorrà prima che il Csm acquisisca tutti gli elementi utili a valutare la legittimità degli atti di una precisa procura della repubblica. E non sappiamo quanto tempo ci vorrà prima che l’opinione pubblica maturi una consapevolezza piena su che cosa significhi vedere messo in discussione il nostro stato di diritto. Sappiamo però che ogni giorno passato a non denunciare gli orrori del khomeinismo giudiziario coincide con un giorno passato a legittimare una repubblica malata e rassegnata alla gogna. Una repubblica che semplicemente non riesce a considerare la sospensione della nostra democrazia per via giudiziaria un tema più importante degli equilibri dei collegi dell’Alto Adige.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.