La scienza tecnocratica del populismo

Francesco Petrelli*

Il caso del pm di Trani e l'idea che la giustizia sia solo un palcoscenico di bei gesti, che val la pena di compiere per sentire attorno a sé il consenso di “gente semplice e silenziosa”

La notizia del pubblico ministero della Procura di Trani che ha commentato sui social la sentenza di assoluzione relativa al processo ad analisti e manager di due agenzie di rating, da parte del Tribunale, ha suscitato qualche scalpore, anche perché finita prontamente nelle mani del CSM. Si potrebbe ascrivere questa vicenda nell’ambito di quelle perdonabili esternazioni alle quali ci si lascia andare sull’onda dell’emozione, e segno magari, non necessariamente negativo, di una forte passione civile o di un particolare attaccamento alla propria funzione. E tuttavia, ciò su cui non si è abbastanza riflettuto è il significato reale, o se volete ideologico, che quelle parole nascondono e che rendono più interessante la questione.

 

L’idea che un’indagine giudiziaria dispendiosa e difficile possa essere intesa come un gesto “dannunziano” in relazione al quale “il risultato finale non conta più” e “diviene solo un trascurabile dettaglio”, fa della giustizia un campo di battaglia, un palcoscenico di bei gesti, che val la pena di compiere perché un pubblico ministero sente attorno a sé il consenso di “gente semplice e silenziosa” l’afflato del “Popolo Sovrano”.

 

Si tratta allora, evidentemente, non di semplici incontinenze emotive, ma del disvelarsi di vere e proprie filosofie del processo, e di autentiche ideologie che oramai si vanno disvelando nella loro estensione e nella loro chiarezza. Filosofie ed ideologie che sono l’esatto contrario di quei pochi e sani principi che dovrebbero fare del giusto processo il baricentro di ogni democrazia liberale ed il cuore pulsante della stessa convivenza civile.

 

Occorre, allora, guardare al fenomeno del populismo con uno sguardo finalmente diverso. Perché il populismo non può più essere inteso semplicisticamente come risultato di una sollecitazione di istinti primitivi e viscerali. Un simile approccio ci può far sottovalutare alcuni fenomeni, ascrivendoli semplicemente a stravaganze personali di tipo umorale, ad eccessi di passione, mentre nascondono gli esiti di una vera costruzione ideologica.

 

Il populismo ha invece una base scientifica perché opera oggi su strumenti sofisticati e tecnologici. Questo nuovo populismo è intriso di tecnicalità comunicativa, di tecniche narrative sperimentate, tanto disponibili da consentire la creazione rapidissima ed una diffusa penetrazione di correnti di pensiero e di parole d’ordine. Immaginare che questo populismo, che attraversa vincente la nostra società, sia il frutto di una risposta tanto naturale quanto istintiva alla complessità del mondo, significa sottovalutarne non solo le potenzialità, ma le stesse origini, ovvero la matrice tecnocratica di una politica che fingendo sensibilità alle aspettative popolari ne opera in realtà la manipolazione.

 

L’idea che il processo costruito attorno allo strumento del contraddittorio non conti nulla, che non contino nulla neppure le sentenze emesse nel nome del popolo italiano, e che infine le assoluzioni sugellino solo la vicenda risibile di un altro “colpevole che l’ha fatta franca”, ha oramai una consistenza riconoscibile. E’ una vera e propria cultura che viene alimentata con sapienza, e che attraversa trasversalmente l’intera società, inoculando un’idea primitiva ed autoritaria della giustizia, fatta di pubblici ministeri che vivono l’esperienza giudiziaria come un’infatuazione, investiti di un sacro furore che vive solo del consenso popolare. Un’idea di processo che è tale solo se infligge condanne, possibilmente esemplari, nel nome del populismo vincente, fatto dell’epopea dei “poteri forti” che vincono sui poveri giudici e di “codici spaventapasseri”. Cose che abbiamo già sentito da qualche parte. Che volano velocissime da un profilo Facebook all’altro, per un’idea moderna di giustizia.

 

*Segretario dell'Unione delle Camere Penali

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