Jacques Lacan

Lacan a Lovanio, divertimento e significato

Davide D'Alessandro

Nell’ultimo numero della Rivista “La Psicoanalisi” viene pubblicata la Conferenza tenuta nel 1972 nella città belga dal celebre psicoanalista francese. Emerge chiara l’intelligenza di un pensatore che, in poco meno di un’ora, dice tanto, forse tutto, sulla psicoanalisi, sull’analista e sull’analizzante, sul discorso scientifico che “porta qualcosa di completamento nuovo nel legame sociale”

È divertente e significativa (forse perché ciò che conta nella vita come nella (tra)scrittura sta nella possibilità di insegnare divertendo) la lettura della Conferenza di Lovanio, tenuta da Jacques Lacan il 13 ottobre 1972 all’Università Cattolica della città belga e contenuta nell’ultimo numero della Rivista “La Psicoanalisi”, edita da Astrolabio sotto l’attenta direzione di Antonio Di Ciaccia. È proprio il direttore a introdurla e in parte a illustrarla, nella nota editoriale, lui che quel giorno era presente sui gradini più alti della gremita Aula Magna dell’Alma Mater. Scrive Di Ciaccia: “Riprendendo i suoi quattro discorsi, Lacan indica il cambiamento che vi si sono operati. Si parte dal discorso del dominus, il quale ha un potere ma non ha bisogno di sapere nulla. Quando invece il sapere ha avuto accesso al potere, allora è avvenuta una vera e propria rivoluzione. Lacan si dilunga su questo discorso poiché è quello dominante in tutti coloro che lo stavano ascoltando e che, volenti o nolenti, si aspettano qualcosa dal potere che viene dal fatto che il sapere occupa il posto dominante. Il sapere che si è dato il potere è affare del magister, del pedagogo, del pedante, o dello schiavo antico o del servo hegeliano. Ora costoro abitano le università, la magistratura, altrove, egli la dice, la burocrazia. Ma la cosa non si è fermata lì. E Lacan ricorda che almeno una persona, ossia lui stesso, ci aveva messo uno zampino perché la cosa non si fermasse e continuasse a girare dato che ci sono dei piccoli segni che la cosa non continua più a funzionare tanto bene. Come si vede egli punta a introdurre il discorso analitico. E lo introduce non già a partire dal sapere, ma a partite dalla vita e dalla morte. Non già però dalla vita e dalla morte come semplici concetti, poiché concerne qualcosa che gode o che soffre, e che ha un corpo”.

Postumano è il titolo del numero che contiene altri interessanti interventi, tra cui spicca “Al di qua dell’inconscio” firmato da Jacques-Alain Miller. Continua Di Ciaccia: “Tutto questo sembrerebbe bastare, ma non basta. Perché bisogna fare ritorno al sapere, a quel sapere che ci governa e che resta completamente in sospeso. Sapere che non è scienza, ma è un sapere che si trasmette tuttavia tramite la parola. Questo sapere provoca verso colui che è supposto esserne il riferimento un vero amore, e non già un amore di seconda mano. Eppure anche costui, o meglio costoro, ossia gli psicoanalisti, possono credere di non saperne niente, ma qui si sbagliano dato che ne sanno qualcosa, solo che, proprio come per l’inconscio di cui è l’esatta definizione, non sanno che lo sanno”.

Durante la Conferenza (parte divertente) ruba la scena (e la parola) un giovane che prima butta acqua sugli appunti di Lacan, poi persino addosso allo stesso Lacan, il quale non solo non si scompone, ma accoglie la sua parola e la …scompone tra le risate generali, mostrando che la rivoluzione invocata dal giovane prevede una nuova ...organizzazione. In meno di un’ora, e nelle poche pagine trascritte sulla Rivista, Lacan dice tanto, quasi tutto, sull’analisi e sull’analista, senza trascurare, anzi segnandolo in maniera impeccabile, il ruolo dell’analizzante (fino al suo avvento definito analizzato), che è chiamato a fare tutto il lavoro. Un analista, per Lacan, “è colui che si può permettere, che osa permettersi di mettersi rispetto al soggetto – al soggetto effettivamente più o meno impazzito da quella straordinaria condizione umana di abitare il linguaggio – in posizione di causa del desiderio. Vero è che il transfert non è cosa da niente, ma se non ci fosse la parola, la parola del soggetto parlante, dell’analizzante stesso che ne traccia in qualche modo le vie, mai l’interpretazione dell’analista potrebbe fare quel qualcosa, quel taglio grazie al quale cambia una struttura”.

Il significato sta nella chiusura dello psicoanalista francese: “Quel qualcosa che si instaura dall’analizzante all’analista è la cellula iniziale di qualcosa che deve andare molto più lontano, che andrà o non andrà, ma, se va, la posizione dell’analista occuperà un posto essenziale nel modo di disagio nella civiltà che Freud aveva già individuato. Lo aveva individuato sapendo quel che diceva perché ne avvertiva arrivare i sintomi. Il disagio andrà sicuramente accentuandosi. Non può che accentuarsi in ragione di quanto il discorso scientifico porta qualcosa di completamento nuovo nel legame sociale”.

Capite che cosa è in grado di portare, invece, un pensatore illuminato con una sola e semplice Conferenza? Porta qualcosa di imperdibile, il divertimento e il significato, la sostanza di un modo di agire, di funzionare, non sempre compreso ma chiaro, chiarissimo, a chi…lo ha già compreso, anche se non sa che lo sa.