Vittorio Lingiardi

Vittorio Lingiardi, l'immersione nella memoria

Davide D'Alessandro

Per lo psicoanalista di formazione junghiana, psichiatra e professore ordinario di Psicologia dinamica e clinica alla Sapienza, “l’analisi è anche uno stato mentale e affettivo, la capacità di parlare di sé e dell’altro in termini psichici. Occorre essere per il paziente un oggetto capace di svolgere funzioni diverse, avere cioè un funzionamento multiplo in modo da offrirgli diverse possibilità di sintonizzazione. Il peggior analista è quello che usa la sua posizione per sedurre intellettualmente o affettivamente la persona in analisi”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

È una cura del dolore mentale, è un incontro, una relazione, un apprendistato, una cognizione del dolore, una “traversata”, come direbbe lo psicoanalista francese Jean Bertrand Pontalis. Un’esperienza di relazione e di cura che serve molti scopi. Uno è la (ri)costruzione della propria storia, sapere da dove veniamo. Un altro è imparare a vivere con noi stessi e le nostre fragilità. È anche uno stato mentale e affettivo, la capacità di immergersi nella memoria, di parlare di sé e dell’altro in termini psichici. L’analista al lavoro è un umano che si prende cura di un altro umano, con responsabilità e responsabilizzandolo.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Bollivano troppe cose in pentola e volevo qualcuno che mi aiutasse a cucinarle. E poi avevo bisogno di parlare di me e del mio futuro a qualcuno che non fosse (un) familiare.

Come scelse i suoi analisti?

Avevo 22 anni, frequentavo il quart’anno di medicina e volevo iniziare l’analisi. Scelsi un’analista di cui mi avevano parlato bene. Alla fine del primo colloquio mi disse che mi avrebbe analizzato volentieri. Ma, aggiunse, “per correttezza devo dirle che, per via del suo orientamento sessuale, non potrà fare lo psicoanalista”. Una ferita, ma sullo sconforto prevalse la convinzione che il tempo mi avrebbe dato ragione. Che su quel punto non sarei cambiato io, ma la teoria psicoanalitica. Non persi fiducia nell’analisi: scelsi un altro analista e mi trovai molto bene.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Ottimo? Diciamo “sufficientemente buono”. La curiosità, la pazienza e un sentimento morale. Aver fatto i conti con il narcisismo e sapersi muovere nel proprio mondo interno. Sentirsi relativamente libero da modelli teorici e non avere particolari devozioni. Essere per il paziente un oggetto capace di svolgere funzioni diverse, avere cioè un funzionamento multiplo in modo da offrire al paziente diverse possibilità di sintonizzazione. Il peggior analista è quello che usa la sua posizione per sedurre intellettualmente o affettivamente la persona in analisi.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Sono inevitabili, ognuno vuol dire la sua. La psicoanalisi è scismatica fin dalle sue origini. Comunque meglio tante scuole che una sola. Non amo le scuole che veicolano un pensiero unico, mi piacciono quelle che integrano e includono senza perdere la loro personalità. Le scuole psicoanalitiche sono tante, ma tante sono anche le definizioni di psicoanalisi. Aggiungo che vi sono teorie molto diverse che si traducono in scelte cliniche confrontabili e vi sono analisti della stessa scuola che lavorano in modi molto diversi. La molteplicità/pluralismo è indice di vivacità e dialogo, ma può essere un sintomo di confusione e debolezza, e dunque difficoltà di dialogo.

Perché ritiene Jung il più convincente dei maestri?

Non lo ritengo. In generale trovo che oggi per uno psicoanalista considerare maestro (o sentirsi allievo) del fondatore di una psicologia (che sia Jung o Freud, Klein o Lacan) sia rischioso. Diciamo che temo la psicoanalisi “carismatica”. Jung è stata una personalità straordinaria, ha avuto intuizioni geniali, nelle sue pagine si trovano frasi appassionanti (per esempio questa: «Ogni psicologia, la mia inclusa, ha il carattere di una confessione soggettiva»), ma è più portato a proporre una visione del mondo piuttosto che un sistema di cura. Quella junghiana è stata la mia prima casa, le devo molto, ma oggi penso alla psicologia junghiana come a un affascinante liceo propedeutico ad altri necessari percorsi teorici e clinici.

Per Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Se significa dare voce alla nostra potenzialità creativa sono d’accordo con lui. Siamo chiamati a trovare uno stile personale dopo aver fatto i conti con il bene e il male derivati dai vincoli delle nostre relazioni primarie e della nostra impronta genetica. Di Hillman mi piace anche l’appello ad aprire la finestra della stanza d’analisi per appartenere all’anima del mondo, promuovere una mente psicologica ma anche ecologica.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Direi che si decide insieme, a volte aiutati da un sogno. L’analisi è un ossimoro: una relazione intima tra estranei, un percorso di avvicinamento per separarsi. Comunque non sono per le conclusioni imposte. Se un paziente vuole restare, non lo caccio.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Non saprei, ciascuno porta la sua ed è sempre diversa. La fragilità narcisistica, la perdita di senso, la mancanza di sicurezza, l’autoreferenzialità, la difficoltà a prendersi cura degli altri sono temi che riguardano tutti, ma possono manifestarsi a vari livelli dell’organizzazione della personalità, da quelli nevrotici a quelli psicotici.

Curano di più le parole o i silenzi?

Non ci sono parole senza silenzio. Io comunque sono un analista che parla.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Ucciso direi proprio di no. Anzi, mi sembra una soluzione cruenta e sbrigativa; non analitica. Va “semplicemente” interiorizzato come funzione. Quindi in un certo senso sì, oltrepassato. Quando parla degli analisti che ha avuto e degli autori che ha amato, Ogden usa il termine “interiorizzazione metamorfica”. È una forma di commemorazione, ma è metamorfica perché essi non vengono solo banalmente trasformati in aspetti di noi stessi (come in una semplice identificazione), ma contagiati dalla nostra diversità, dal nostro idioma. Che per certi aspetti viene da loro, ma da loro come li abbiamo letti e visti noi.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Preferisco parlare di difese e non mi piace l’idea di farle “crollare”. Troppo bellica. Meglio dire capirle, trasformarle, svilupparle… Prima di tutto bisogna essere sicuri che il paziente viva il setting e la relazione analitica come un luogo sicuro, dove potersi fidare. Credo sia utile aiutare il paziente a vedere che a volte facciamo cose che crediamo ci proteggano e invece ci danneggiano. Ovvio che dipende dal tipo di paziente. A volte si aspetta e basta. A volte, se il paziente risponde, con interpretazioni determinate (ma al momento giusto). Una buona interpretazione al momento sbagliato è una cattiva interpretazione. E poi con l’esempio. Mostrando di essere un analista che non si impunta, che è elastico.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Donna Orange, una collega americana, ha coniato molti anni fa l’espressione, decisamente intersoggettiva, di “co-transfert”. L’espressione non ha avuto molta fortuna ma oggi sappiamo che è difficile separare il transfert e il controtransfert. La stanza si riempie in fretta di aspettative, proiezioni, affetti che arrivano da entrambe le parti. Basta riconoscerli.

Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Non saprei dirle se “interpreto” i sogni, preferisco dire che ci gioco. Considero i sogni alla stregua di testi e immagini che il paziente porta in seduta. Mi piace l’idea del sogno come «poesia visiva della mente», per dirla con Nino Ferro. Poi magari sono costruzioni neurologiche casuali. Però come materiali narrativi li possiamo usare. Se il paziente risponde con una bella associazione, con un nuovo ricordo, allora forse abbiamo detto la cosa giusta, abbiamo usato il racconto del sogno per toccare una corda che risponde. Lo si capisce al volo. Piace o stupisce o spaventa o incuriosisce entrambi e non c’è bisogno di allungare troppo il brodo. La reazione del paziente è il metro migliore. Credo sia importante usare i sogni per avviare un dialogo tra il paziente che veglia e quello che sogna, magari scoprendo la veglia nel sonno e il sogno nella veglia. Detto questo credo che in ogni sogno esista, come diceva Freud, un «punto di insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto». Direi che siamo passati dal sogno freudiano come materiale cifrato da rivelare al sogno come laboratorio immaginifico da raccontare. In analisi è molto utile seguire la serie dei sogni, capire se conferma una direzione di sviluppo. Ho avuto un paziente che per mesi e mesi sognava solo oggetti inanimati, deserti, scheletri. Col procedere dell’analisi i sogni si sono animati, umanizzati. Detto questo direi che l’analista deve saper stare in tensione tra il desiderio di “interpretare” il sogno e la consapevolezza della sua ineffabilità.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Dipende da quali altri. Però il mio inconscio lo frequento da sempre. È un po’ come un gatto selvatico che ogni tanto accetta una carezza. Non è addomesticato, fa quello che vuole, mi sorprende ma siamo in confidenza e non mi spaventa più.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Ogni analisi ha il suo tempo, perché ogni coppia al lavoro ha un suo ritmo. Non chiamerei analisi una relazione terapeutica troppo breve (ci sono altri nomi per chiamarla, per esempio psicoterapia breve), ma non chiamerei analisi nemmeno una relazione terapeutica troppo lunga (che semmai definirei una convivenza di sostegno). Lo stesso vale per la frequenza. Ci sono analisi da tre volte alla settimana e analisi da una volta alla settimana. Dipende da molte altre variabili, lo stato della mente del paziente. E naturalmente anche lo stato del suo portafoglio.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Preferisco dire che l’analisi è un cammino di conoscenza e di esperienza di cose non (ancora) pensate.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

La presunzione, il dogmatismo e a volte il cinismo. 

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Sono tantissime. Dietro ogni nostra frase c’è sempre qualcun altro. Quante volte, dietro un attacco di autodisprezzo, c’è la voce di una madre severa; oppure, dietro un amore infelice alla cui perdita non ci vogliamo rassegnare, quella di un padre irraggiungibile. Il teatro della convivenza mentale è composto da relazioni che transitano tra mondo esterno e mondo interno fino a renderli a volte indistinguibili. E poi non ci sono solo le persone, ma anche il mondo.  

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

Come potrebbe essere altrimenti? Ma non, come invece per molto tempo ha fatto la psicoanalisi, per normarla con tappe e fasi di sviluppo “psicosessuale”. Semmai per capire che cosa può dirci del nostro funzionamento psichico, dello stile della nostra personalità, delle caratteristiche del nostro attaccamento. La sessualità, è ovvio, non ha solo a che fare con i genitali o l’orgasmo. A maggior ragione oggi che i corpi sono sempre più dimenticati e la sessualità è una cybersessualità fatta in casa, autogestita.