Marisa Fiumanò

“Ho scelto lo psicoanalista come si sceglie un amore”

Davide D'Alessandro

Marisa Fiumanò, analista lacaniana, si è formata con Muriel Drazien e Jean Paul  Hiltenbrand, “un vero maestro. Con lui ho fatto un percorso molto diverso dalla mia prima analisi ma non in contrapposizione. Sono entrata in un altro transfert, in un altro discorso, in un’altra lingua e dunque in un altro tipo di  percorso. Per fare un ottimo analista occorrono una buona formazione (un’analisi, la lettura rigorosa dei testi fondatori, il lavoro con gli altri analisti), molta esperienza clinica, un lavoro incessante di ricerca, una cultura vasta che spazi nei campi più diversi del sapere e infine doti personali, imponderabili come quelle di un artista. La sessualità è assolutamente al centro della cura. La psicoanalisi non si occupa che di questo, non è esperta che di questo, non lavora che a questo: rendere un soggetto capace di desiderio sessuale e di sublimare questo desiderio nel lavoro o nella produzione artistica”

Si possono leggere i libri di Marisa Fiumanò (l'ultimo è Masochismi ordinari, edito da Mimesis), si può entrare nel suo sito www.marisafiumano.com e cogliere autentiche gemme di pensiero, si possono ascoltare le sue risposte e recepire l'amore per la psicoanalisi nell'intervista che segue.

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

L’analisi è un percorso di parola reso possibile dall’amore di transfert che lega il paziente al suo analista (e viceversa). Grazie a quest’amore si impara a mettere a distanza il proprio immaginario, a trovare il proprio posto nel simbolico, ad accettare i punti di reale più resistenti e enigmatici che  caratterizzano ciascuno. Come vede ho messo subito i piedi nel piatto riferendomi ai tre registri di Lacan, a RSI (reale, simbolico, immaginario). Questa è la prima novità teorica importante che Lacan propone fin dall’inizio del suo insegnamento e che manterrà sempre. Una novità indispensabile, senza la quale è impossibile condurre un’analisi. Nel corso di un’analisi si impara poi a occupare un posto di uomo o di donna, ad abbandonare  il narcisismo infantile, a incuriosirsi per l’alterità, a desiderarla. Si scopre, in un’analisi, che l’alterità ci manca, come la costola mancava ad Adamo. L’alterità radicale, infatti, è il femminile. Il cammino di un’analisi può essere descritto in maniera ideale ma nessuna analisi è mai davvero perfetta. Nessuno può mai dirsi analizzato del tutto. Un’analisi irrobustisce senza irrigidire, serve a renderci capaci di amare e lavorare, come sosteneva Freud, a fare della vita una ricerca continua che produce del nuovo, in qualsiasi  campo ci si ingaggi. Per questo ci vuole del desiderio e per desiderare non possiamo essere sazi di piacere, di oggetti, di amore per noi stessi. Dal tavolo della vita ci si deve alzare sempre con un po’ di appetito, lo stomaco un po’ vuoto: ne vorremmo ancora. Vorremmo “Ancora” (come Lacan titola il suo seminario XX) godere della vita ma per non cadere preda di un godimento eccessivo, che istupidisce, dobbiamo tenerci un po’ di voglia. L’analisi non educa al sacrificio ma al limite, a godere un po’ ma senza eccessi, cerca di sciogliere le dipendenze di ogni genere e sostiene la libertà del soggetto, permette di approfittare meglio del fatto di essere vivi.  

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

La ragione contingente fu la separazione da quello che era stato il mio compagno d’adolescenza, un uomo che allora non ero in grado di apprezzare come meritava. Ero molto giovane, alla ricerca di un’identità di donna ma già determinata nella scelta di fare l’analista. Avevo amato la filosofia via il mio professore di liceo, il mio primo faro al di fuori della famiglia. È stato la mia bussola, il mio Nome del Padre. Il suo nome è impresso, accanto a quello di docenti illustri come Benedetto Croce, sulla lastra di marmo all’ingresso del  mio Liceo, il Vittorio Emanuele di Napoli: Francesco Albergamo.

Come scelse i suoi analisti?

Muriel Drazien, la mia prima analista, che è recentemente scomparsa, era stata mandata da Lacan in Italia, a Roma, negli anni Settanta, per dare inizio all’insegnamento della sua dottrina. La scelsi per caso, al posto di un analista della SPI (Società Psicoanalitica Internazionale) che avrebbe avuto posto per me solo diversi mesi dopo, quando un altro paziente avrebbe smesso. La mia domanda però era urgente, non ammetteva dilazioni. Muriel mi accolse subito e furono i miei primi, fondamentali, nove anni.  La mia prima analista era animata da un desiderio vigoroso per la clinica, trasmessole da Lacan e dai suoi primi allievi, Safuan e Israel, che erano stati i suoi supervisori. Con molti altri analisti che hanno fatto la storia del lacanismo essi furono accolti a Roma per tenere dei seminari e animare delle giornate di studio. Poi mi sono trasferita a Milano, la città del mio compagno di allora: lì è nata mia figlia, ho scritto i miei libri, ho collaborato a molte testate giornalistiche sui temi della psicoanalisi e del sociale. Infine ho incontrato il mio secondo analista, Jean Paul Hiltenbrand, a un convegno organizzato dall’Associazione freudiana, affiliata all’ Association freudienne internationale (ora Associazione lacaniana internazionale) di cui lui faceva parte e per cui, allora, simpatizzavo. L’ho scelto d’istinto, come si sceglie un amore, e il seguito, cioè il lavoro clinico fatto con lui, mi ha dato ragione. Hiltenbrand è un vero maestro, non soltanto per me, ma per tutta la numerosa comunità analitica che fa parte dell’Associazione lacaniana internazionale Rhones Alpes, che ha sede a Grenoble. Con lui ho fatto un percorso molto diverso dalla mia prima analisi ma non in contrapposizione. Sono entrata in un altro transfert, in un altro discorso, in un’altra lingua e dunque in un altro tipo di  percorso.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Una buona formazione (un’analisi, la lettura rigorosa dei testi fondatori, il lavoro con gli altri analisti), molta esperienza clinica, un lavoro incessante di ricerca che tenga conto delle mutazioni che avvengono nel sociale, una cultura vasta che spazi nei campi più diversi del sapere e infine doti personali, imponderabili come quelle di un artista. I primi allievi di Lacan provenivano da formazioni diverse: erano antropologi, filosofi, sociologi, danzatori, medici, letterati, poeti e scrittori. Quello che contava, per Lacan, era che entrassero nella logica del discorso analitico, che ne assumessero l’etica, che la mescolassero con il loro personale bagaglio di sapere. Oggi gli psicoanalisti sono considerati per legge una variante degli psicoterapeuti e gli psicoterapeuti possono provenire solo da psicologia o medicina. Invece la psicoanalisi non è una costola della psicologia e non si confonde con la psicoterapia anche se noi analisti facciamo, talvolta, delle psicoterapie, quando è necessario, quando non possiamo fare altrimenti.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Dobbiamo intenderci sul termine “scuola”. Se per “scuola” intendiamo un’associazione di analisti che fanno scuola (Lacan chiamava la sua associazione École, Scuola), ciò che conta è che la sua ricerca sia orientata dall’etica analitica. L’etica analitica esclude guerre e rivalità così come il narcisismo e la paranoia. Sollecita invece il lavoro comune, è attenta alla mutazione sociale, ai  cambiamenti in cui siamo immersi e alle novità cliniche che comportano. Se vengono rispettati questi parametri minimi ogni “scuola” psicoanalitica può essere una buona scuola e ogni scelta di “scuola” è quella giusta. Se per “scuola” si intende invece un istituto riconosciuto dallo Stato che è gestito da psicoanalisti per formare degli psicoterapeuti il discorso è più complesso e non privo di aporie. Io dirigo una scuola di psicoterapia riconosciuta dal MIUR, il Laboratorio Freudiano di Milano. Una scuola che ho fondato e voluto e in cui ho  profuso molte energie. Cerco di invitarvi i migliori fra i miei colleghi, di tenere alto il livello degli insegnamenti, di sollecitare gli allievi a misurarsi nella ricerca teorica, ad appassionarsi alla clinica. Questo produce esiti variegati. La cultura in cui i giovani aspiranti terapeuti oggi sono immersi non li aiuta a prendere la responsabilità di “autorizzarsi” , così diceva Lacan, a essere analisti. Eppure, se scelgono una scuola ad indirizzo psicoanalitico vorrà pur dire qualcosa! Il nostro intento è appassionarli agli insegnamenti e alla ricerca, a indurli a continuare la formazione. Sappiamo che quattro anni di specializzazione sono insufficienti. Io non credo che le Scuole di psicoterapia bastino a garantire un buon professionista. Tuttavia istituirle è stata una scelta obbligata che abbiamo fatto innanzitutto per permettere ai nostri allievi-futuri analisti di poter esercitare in tutta legalità.

Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?

Lacan ha riletto Freud come nessun altro, non c’è un suo testo importante che non abbia commentato e dissezionato. È un “freudiano” che Freud non riconobbe anche se Lacan gli mandò in lettura la sua tesi di laurea. Lacan veniva da un'altra cultura, aveva una formazione strutturalista, parlava un’altra lingua anche se leggeva il tedesco, apparteneva a un’altra epoca e forse aveva una sensibilità diversa  da Freud. Quando parla di clinica, quando legge Freud, lo riscrive e, in un certo senso, paradossalmente, lo semplifica, traccia le coordinate del testo, ne coglie i punti di struttura. Un esempio? La lettura del caso di Dora, una delle mie prime letture di Lacan. Dora riletta da Lacan è un testo illuminante sulla femminilità e le sue aporie, un insegnamento fondante.

Per  James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Ho letto Hillman da ragazza ma devo confessare che non ha influito sulla mia formazione. Così come Jung. Con Lacan direi che gli esserei umani, o i “parlesseri” come lui li definisce, sono chiamati a desiderare e a vivere di conseguenza. È questo il nostro primo compito: riconoscere il desiderio che ci abita. Bisogna fare attenzione però alla parola desiderio: quando Lacan parla di desiderio intende il desiderio sessuale, incarnato, intriso di pulsione e di vita, che investe il corpo. La psicoanalisi non è astratta, si occupa esattamente di questo, di come si fa a vivere attraversati incessantemente, come siamo, dalla violenza delle pulsioni. La pulsione va “legata”, come dice Freud, imbrigliata nel simbolico: solo allora sostiene il desiderio. In questo senso i parlesseri sono chiamati, più che a “fare anima”, a desiderare.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

L’analisi non termina mai perché l’inconscio non smette mai di lavorarci, di farsi presente con le sue tante formazioni: sogni, lapsus, motti di spirito, dimenticanze, sintomi. Se l’analisi ci ha reso sensibili a tenerne conto, ad analizzarne le suggestioni, il lavoro di produzione inconscia non si arresta e l’analisi, come diceva Freud, risulta interminabile. Al tempo stesso termina perché ad un certo punto si smette di incontrare l’analista. Si può smettere per molti motivi: la fine della forza propulsiva del transfert, un certo equilibrio acquisito, una resistenza che risulta inattaccabile proprio perché si è vicini al “nodo patogeno” e prevalgono le resistenze. L’analisi può essere interrotta ancora per molti altri motivi. Interrompere o smettere non vuol dire “finire”: un’analisi “terminabile” non chiude ma rilancia, può terminare solo  con un nuovo investimento.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Le forme di sofferenza nevrotiche sono cambiate e, come i miei colleghi, ho a che fare con delle novità. Spesso accogliamo soggetti spaesati, smarriti, con cui dobbiamo imparare a lavorare in modo diverso da come si faceva trent’anni fa a causa dell’attuale, crescente mancanza di coordinate simboliche. Questo obbliga a un diverso maneggiamento del transfert. Freud affermava, a esempio, di “noleggiare” un’ora del suo tempo a un paziente che poteva farne l’uso che credeva, compreso il non farne uso, cioè assentarsi. Anche in questo caso, però, egli doveva comunque pagare perché il pagamento era costitutivo di un patto simbolico stabilito all’inizio della cura. Oggi questo patto simbolico è più difficile da instaurare, in molti casi è una costruzione che può avvenire nel corso della cura. Potrei fare altri esempi  in cui il quadro simbolico è incerto, confuso e la cura non procede secondo i binari conosciuti.  Questo tipo di nevrosi è “grave” perché dobbiamo rivedere il nostro strumentario, reinventare i modi in cui intervenire, come far uso della parola per ricostruire il quadro simbolico in cui un soggetto possa ritrovarsi.

Curano di più le parole o i silenzi?

Dipende dai pazienti, dalla fase dell’analisi, dalla particolarità della seduta. L’ascolto silenzioso, o parsimonioso di interpretazioni, comunque, non basta. I nostri pazienti vanno spronati, sostenuti, indotti a proseguire sulla strada che il loro desiderio va tracciando. Devono essere portati a cambiare discorso: l’amore è segno che si cambia discorso affermava Lacan e il transfert è una particolare forma d’amore. Ascoltarli in silenzio non basta.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

La lotta a morte con il padre fa parte della nevrosi e in genere è una questione che riguarda gli uomini. È una questione immaginaria, è la lotta con l’antico rivale d’infanzia per il possesso della madre. È una posizione che va superata. Non si diventa uomini facendo fuori il padre o l’analista. Non è vero, come sosteneva Nietzsche, che se Dio è morto tutto è possibile. È vero il contrario: se il Padre, se la sua dimensione simbolica, se il Nome del Padre non è in funzione, più niente è possibile. Oggi un esempio del mancato funzionamento del Nome del Padre sono i femminicidi: gli uomini che uccidono le donne, che hanno paura della loro alterità, sono uomini per cui il Nome del Padre non è in funzione o è in funzione in modo precario. La loro identità è incerta e per affermarla uccidono..

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Senza appoggiarcisi sopra, senza rinforzarle contrastandole, a esempio. Talvolta si deve saper tacere, magari a lungo, perché emerga la ragione della loro messa in atto.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Lacan non faceva differenza tra transfert e controtransfert e parlava del fenomeno di transfert in cui i due protagonisti della vicenda analitica sono coinvolti. Differenziarli significa pensare a due personaggi, l’analista e l’analizzante, che interloquiscono tra loro in una dimensione di intersoggettività. L’analisi, invece, non è un rapporto tra due persone, Two body psycology. C’è almeno un terzo, simbolico, presente nella coppia analitica. Questo Altro simbolico, che fa da terzo, è il linguaggio. La mia seconda analisi si è svolta in francese, la lingua del mio analista. Ho imparato la lingua così, sono entrata nella sua lingua e nel suo discorso per poi farmene qualcosa di assolutamente singolare e mio.

Per  Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Una buona interpretazione è sempre equivoca e aperta alla pluralità di senso. Viene confermata dalla produzione di nuovo materiale da parte del paziente. Questo significa che abbiamo colto nel segno.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Parlare dal divano produce godimento, non fosse che perché ti stai indirizzando a qualcuno  che ti ascolta,  che è supposto saperne molto, anche su di te. Stendersi sul lettino o comunque rivolgersi a qualcuno nel transfert comporta del piacere. E non poche scoperte. Personalmente sono quasi sempre uscita da una seduta d’analisi  arricchita e vitalizzata.  Il lavoro d’analista, invece, richiede molta più responsabilità e impegno dato che deve tener presente un mare di varianti possibili dei discorsi che ascolta. È un lavoro molto difficile, che richiede una dedizione totale, che non prevede vacanze né battute d’arresto. Anche in vacanza continuiamo a lavorare. Non smettiamo mai di essere analisti.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

No, e non si capisce come qualcuno possa credere che il tempo psichico sia manipolabile, accorciabile così facilmente. Le mutazioni psichiche sono lente, il tempo logico soggettivo non coincide col tempo cronologico ed è diverso per ognuno. A ognuno il suo tempo, quello che gli ci vuole.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

È una bella definizione, che condivido. La libertà, come il desiderio, però, è difficile da assumere. Non vuole compromessi, a esempio; invece noi affoghiamo nei compromessi, soprattutto in quelli affettivi. Possiamo restare a lungo in legami logori e infelici, senza desiderio. Ma non li tagliamo. Un analista deve saper sollecitare i suoi pazienti nella direzione del desiderio e della libertà, ad agire conformemente a ciò che sanno del proprio inconscio.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Ogni seduta può costituire un rischio per l’analisi. Malgrado la prudenza e il saperci fare corriamo sempre il rischio di sbagliare nell’uso del transfert. E basta davvero poco. Quella dell’analista è una pratica delicata che richiede il massimo della presenza e dell’attenzione.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

L’analisi non è un rapporto duale. Nella seduta si è almeno in tre e il terzo è il linguaggio. L’analista non è un interlocutore, non è  un simile. Rinvia al paziente gli elementi essenziali che lui stesso fornisce (i significanti li chiama Lacan) per costruire il proprio discorso. Non è là per sé stesso. È, in un certo senso, una figura dell’abnegazione.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

La sessualità è assolutamente al centro della cura. La psicoanalisi non si occupa che di questo, non è esperta che di questo, non lavora che a questo: rendere un soggetto capace di desiderio sessuale e di sublimare questo desiderio nel lavoro o nella produzione artistica. Lo mette in grado di amare e lavorare, come diceva Freud. Oggi questo cammino è diventato più complicato: la sessualità non è più il più desiderabile dei godimenti. Le dipendenze, le claustrofilie, le nuove forme di nevrosi  non mettono più al centro la questione sessuale. Così accadeva, a esempio, alle prime isteriche di Freud che hanno inventato la psicoanalisi e che si ammalavano per amore. Oggi le domande d’analisi, o di cura, soprattutto nei più giovani, sono prodotte dallo spaesamento, dalla perdita delle coordinate simboliche che aiutano a orientarsi nella vita. Il rapporto con l’altro sesso si presenta più come un rapporto di mutuo soccorso che come una difficoltà del desiderare. Allora bisogna cominciare dal modo con cui viene formulata la domanda d’aiuto, dalla ricostruzione dell’orientamento che manca. La prima tappa è l’accesso a una posizione sessuata in un mondo in cui il genere si può “scegliere”, in cui è legittimo, è un diritto scegliere il proprio sesso. Viviamo in un mondo che esalta diritti e libertà ma in cui vagano soggetti smarriti privi di direzione.