Fëdor Dostoevskij

Fëdor Dostoevskij, la tragicità del Male

Davide D'Alessandro

Il libro di Maria Candida Ghidini sul grande scrittore russo consente di aprire tante porte e, su alcune, di restare sulla soglia, perché nella sua opera resta sempre un non detto che va indagato, che chiede costantemente di essere indagato, prima di entrare

 

«Nessuno come Dostoevskij è andato mai così lontano, nel viaggio verso il Male Assoluto: nessuno vi ha mai abitato con tale costanza; e ci ha guardato così, con gli occhi stessi del crimine». Le pagine di Pietro Citati dedicate a Dostoevskij nella parte terza di Il Male Assoluto, edito da Adelphi, restano scolpite nella memoria e nell'anima di chi le ha lette. Come, per altro verso, quelle di Remo Cantoni. Anzi, in principio era il Verbo, il Verbo era presso Cantoni e il Verbo era Cantoni. Nel senso che il suo Crisi dell'uomo: il pensiero di Dostoevskij, edito da Il Saggiatore, è inarrivabile per la sublime capacità di introspezione. Difficile leggere oltre, andare oltre. Nessuno come Cantoni è andato mai così lontano, nel viaggio verso il grande scrittore russo. Eppure, dentro Dostoevskij, il libro di Maria Candida Ghidini, Salerno Editrice, c’è tutto Dostoevskij, libro per libro, personaggio per personaggio, pensiero per pensiero.

La sua vita travagliata, l’uomo prima della catastrofe, l’inquieta ricerca dell’uomo nell’uomo, l’esilio e il ritorno, il tempo della civiltà e del progresso, la maturità alla ricerca della parola futura. È un libro che s’inoltra nel sottosuolo del grande maestro della letteratura russa, scrittore e filosofo si può ben dire, poiché i suoi romanzi contengono i temi della vita, dell’esistenza di ognuno. Temi che chiamano, che chiedono costantemente di essere indagati, di «scavare fuori l’uomo».

Scrive Ghidini: «Nell’era del fiorire del grande realismo, Dostoevskij non si accontenta di fotografare o specchiare la realtà mediante una riproduzione pedissequa. Un riflesso coglie e fissa un attimo statico; solo attraverso uno sguardo pregno di individualità e fortemente prospettico la realtà è restituita nella sua essenza fluida e nella dinamicità del suo divenire. Solo così l’arte “scava fuori l’uomo”. È questo il sogno di Dostoevskij, questo lo scopo di tutta la sua arte. Per rincorrerlo, essa si è tuffata con “precisione e fedeltà” nell’unico materiale che aveva a disposizione: la storia e la sua realizzazione concreta nella politica e nell’attualità sociale».

Se il reale non si esaurisce nell’esistente, Dostoevskij è scrittore capace di toccare tutte le corde dell’umano, dell’umano strettamente legato alla terra. Aggiunge Ghidini: «La sua facoltà narrativa trova sostegno ed espressione in un complesso di immagini terragne che, nei vari momenti della sua vita, evolveranno in idee e prese di posizioni. Sotto forma di infinite variazioni, l’archetipo della terra costituisce, così, un momento centrale da cui tutto passa». Compreso il Male, che «è tema tragico per eccellenza e in Dostoevskij esso è vissuto alla maniera della tragedia antica, come colpa. Infatti, ancora prima dei grandi romanzi, fin dall’inizio emerge l’implacabile senso di colpa, non per qualcosa di particolare, per un atto compiuto, ma come condizione originaria dell’uomo, come partecipazione di ognuno al Male universale. […] Già in Un cuore debole (1848) l’eroe soccombe alla sensazione di non essere degno della piccola felicità capitatagli, schiacciato da quello che Gadda chiamerà il “gravame comune delle colpe”. Nella maturità, poi, questa dimensione archetipica della colpa sarà trasfigurata dalla visione cristiana della comune partecipazione al processo di redenzione (non senza problemi, tuttavia, e sempre riferita a un futuro difficilmente accessibile per la parola romanzesca)».

Luigi Pareyson, altro acuto interprete di Dostoevskij, ha scritto: «Il mondo umano è dominato da una positiva volontà di male: il male, il peccato, la colpa, non sono l’incapacità umana di persistere e perseverare nel bene, ma sono l’instaurazione positiva di una realtà negativa, cioè il frutto di una volontà diabolica intelligente e consapevole di sé stessa, e la decisione di una libertà illimitata desiderosa di affermazione al di là di ogni legge e di ogni norma. Il male è prodotto dalla volontà e dalla libertà dell’uomo». Stavrogin, espressione del puro arbitrio, vive per il male della gente e «non avendo avanti a sé nessuna norma da violare, non ha nemmeno alcuno scopo da proporsi e da raggiungere, e si dissolve nell’indifferenza, nella noia, nella sperimentazione, nell’annientamento». Spiega Citati: «Qualsiasi definizione diamo di lui è errata: egli è un contrario, un rovescio, un negativo, il negativo di qualsiasi negativo». Il male è parte consustanziale della vita umana. Chiude Pareyson: «Il male prima nega tutto ciò che giunge a distruggere, e poi distrugge sé stesso. […] Il destino del male è l’autodistruzione e la morte».

Chiarisce Ghidini: «Nella ricezione dell’opera dostoevskijana ha finito per prevalere una grande saturazione di idee: i dialoghi appassionati e le idee incarnate che si agitano nei suoi romanzi hanno smosso molta terra, seminato molti semi. Si rimane abbagliati dalla ricchezza di pensiero creatasi nel tempo dall’incontro con Dostoevskij. Tale proliferazione di senso, tuttavia, rischia di incrostare la percezione del testo con le tante letture, inibendo una fruizione più fresca (immediatamente sarebbe impossibile, ce lo insegna Dostoevskij stesso) e dimenticando il profondo radicamento dell’opera nella sua epoca e nel contesto letterario che ha contribuito a generarla. Ho scelto, dunque, di proporre qui un percorso di libro in libro, sciogliendo i grandi temi e i grandi archetipi (la Madre Terra, soprattutto, nelle sue contraddittorie manifestazioni) in una narrazione massimamente vicina ai testi, quelli di Dostoevskij e quelli degli scrittori, in un modo o nell’altro, a lui vicini».

La ricca bibliografia, più che essenziale, consente di addentrarsi in un’opera maestosa con l’aiuto di una pluralità di interpreti. Non si entra dentro la casa dei Grandi senza una chiave di accesso. Quella di Maria Candida Ghidini consente di aprire tante porte e, su alcune, di restare sulla soglia, perché in Dostoevskij resta sempre un non detto che va indagato, che chiede costantemente di essere indagato, prima di entrare.