Tommaso Campanella

Tommaso Campanella, il mascheratore del cristianesimo

Davide D'Alessandro

Il libro di Saverio Ricci analizza e facilita la comprensione di un periodo storico particolare, il percorso umano e intellettuale di una figura rilevante, frate domenicano, filosofo, teologo e poeta. Alto il confronto con Machiavelli su religione, complotto e cospirazione

Non debbono spaventare le seicento pagine, note e indici compresi, che Saverio Ricci dedica a Tommaso Campanella. Il libro, edito dalla Salerno Editrice, ha anzi il gusto della piacevole lettura, poiché analizza e  facilita la comprensione di un periodo storico particolare, a cavallo tra Cinquecento e Seicento e, ancor più, di raccontare, senza mai annoiare, il percorso umano e intellettuale di una figura rilevante, frate domenicano, filosofo, teologo e poeta. L’autore, che insegna Storia della Filosofia all’Università della Tuscia, si è calato con sapienza in una storia fatta di carne e di idee, di prigionia e di libertà, nata a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568, e terminata a Parigi il 21 maggio 1639. In mezzo, diversi arresti, cinque processi, varie detenzioni, la più lunga, 27 anni, nel carcere di Napoli, dove scrisse le opere più note, una su tutte La città del Sole.

Ma chi è stato veramente Tommaso Campanella? Scrive Ricci: “La storiografia degli ultimi decenni ha enormi meriti, riguardo a Campanella, come tutto questo volume spera di dimostrare: pazienti edizioni di opere, decisive scoperte di inediti, illustrazione puntuale di documenti, precisazione di fonti, rapporti e contesti. Tuttavia, nel dibattito interpretativo, la categoria di ‘ambiguità’, riferita a un personaggio dai tratti comunque ‘eroici’, e al suo pensiero, percepito di problematica ‘unitarietà’, anche per la vastità della produzione, è stata però adoperata forse più del necessario. Essa sembra dare per irresolubili, quando non si sia voluto o non si voglia accordare credito esclusivo a una di esse, come pure è stato fatto, radicali alternative: Campanella machiavellico ‘libertino’ e cospiratore ‘repubblicano’, oppure cattolico medievalizzante, o indisciplinato interprete della Controriforma; ‘utopista’ o ‘teocratico’; filo-spagnolo o filo francese, per tattica, o per convinzione; capace comunque di costanti finzioni o dissimulazioni, in un’epoca che peraltro ne faceva uso tanto corrente che spesso le sue non furono credute dai contemporanei, a molti dei quali, pur essi, spesso, inclini o obbligati a doppiezze e auto-censure, prima ancora che ad alcuni storici moderni, egli parve ‘simulatore’, ‘volubile’, ‘oscuro’”.

Ricci fa ordine tra cotante etichette e aggiunge: “Il filo unitario della personalità e dell’opera sua ci appare invece costituito dall’insofferenza verso il disordine del mondo, percepito come intreccio di falsità filosofica, sperequazione, spreco, carestia, malattia, conflitto, e dal programma di porvi rimedio una volta per tutte, attraverso un governo universale, risposta politica a quella prima globalizzazione che sembrò data a fine Cinquecento da un mondo più unito da navigazione, commerci, tecniche, e diffusione della fede cristiana, ma pieno di ingiustizie e falsità fra loro profondamente collegate, e colleganti continenti e civiltà diverse. Un governo universale rischiaratore, a guida filosofica, comunistico, eugenetico, avrebbe dovuto far subentrare a questo ‘ disordine’ l’umanità perfetta: una ‘città del Sole’, costruita per il mondo intero”.

Le cose, come sappiamo, sono andate e continuano ad andare in maniera diversa, se non totalmente opposta. L’umanità perfetta, con l’uomo strutturalmente imperfetto, è pensiero illusorio e velleitario, ma Campanella non smise mai i panni del profeta, anche e soprattutto nei confronti del cristianesimo. Spiega Ricci: “Forse la sua fu ‘profezia’ della mutazione del cristianesimo, da religione del Dio che si è fatto uomo, a etica dell’uomo che vuol sentirsi come un dio, sebbene un dio ancora infelice; e della Chiesa, da comunità protesa al Giudizio, in organizzazione per la giustizia in questa vita. […] Più che ‘smascherare’ il cristianesimo come impostura ‘politica’, e appagarsi con questo, bastandogli di contrapporre alla ‘superstizione’ dei più, il lucido ‘naturalismo’ di pochi, Campanella intese invece ‘mascherare’ il cristianesimo come organica visione mondana, in grado di conquistare larghissime masse, anche di ‘infedeli’, e di unificare il mondo in un impero eurocentrico, risolvendone i problemi, avvertiti come diversi e più complessi, rispetto a quelli dell’epoca del ‘suo’ Machiavelli, che ne fu fonte importante, senza che in una forma di ‘machiavellismo’ si risolvesse tutta la sua concezione”.

Nel quarto capitolo, dal titolo Consigliere di Spagna, vi sono pagine di alto confronto tra Campanella e il Segretario fiorentino, “e Machiavelli, Savonarola e valore politico della profezia resteranno uniti nella riflessione di Campanella, che cercherà di dimostrare come il cristianesimo, se opportunamente ‘armato’ e ‘prudente’, sia la ‘legge’ più adatta a reggere il genere umano”.

E in Machiavellisti e buoni samaritani, capitolo decimo, il confronto si fa ancora più serrato: “Campanella contesta a Machiavelli che il cristianesimo possa essere considerato solo uno dei possibili strumenti religiosi della politica, e in fondo il meno adatto, e afferma piuttosto che esso costituisce la migliore interpretazione della politica, poiché il suo messaggio apocalittico annuncia necessaria la costruzione di una società equa, capace di accompagnare l’umanità alla fine della storia. In fondo, però, si tratta di una rilettura ‘apocalittica’ del Machiavelli ‘repubblicano’, in cui Campanella sostituisce alla ‘religione civile’ dei romani la fondazione ‘naturalistica’ del cristianesimo e la dottrina sociale degli apostoli e dei Padri”.

Sostanziali differenze tra i due sorgono anche sul tema del complotto e della cospirazione: “Campanella prefigura un tipo di complotto fondato proprio su quella capacità di simulazione e dissimulazione che Machiavelli aveva eletto a tratto essenziale del principe e che qui diventa una dote del congiurato”. Ma Campanella, detto il ‘nuovo Macchiavello’, per Giacomo Castelvetro non comprese affatto il Segretario fiorentino, poiché il suo Principe si sarebbe dovuto leggere “come un manifesto anti-tirannico, piuttosto che come celebrazione delle efferate gesta di politici sprovvisti di principi morali”.

Anche a Campanella, come a Machiavelli, toccò in sorte di essere tirato per la giacca, un po’ di qua, un po’ di là. Lo ricorda Ricci per il primo, come lo ricorda Prezzolini per il secondo. Entrambi protagonisti, entrambi in grado di lasciare il segno, entrambi destinati a scatenare intense diatribe. Come il libro di Prezzolini su Machiavelli, così quello di Ricci su Campanella, dimostrano che si può essere ottimi scrittori e interpreti soltanto se non si è di parte, se si rispetta il gigante che si ha davanti, se non si commette l’errore grossolano di cucirgli addosso l’abito su misura di questa o quella chiesa politica. I Grandi non indossano abiti su misura. Vestono come più li aggrada. Liberi. In carcere e fuori. All’Albergaccio o in un convento, poco importa.