Foto tratta da nonsprecare.it

L'Epifania, Dio, l'uomo e il disegno di un bambino

Davide D'Alessandro

Si può essere bambino per sempre? Si può guardare la vita con gli occhi del bambino? Da Cioran a Krishnamurti, riflessioni per un altro modo di vivere. E di credere…

Oltre l’epifania. Oltre la manifestazione della divinità. Ma Dio non c’è? Non ce n’è bisogno? È più onesto e dignitoso che non ci sia, come sostiene Corrado Augias, l’ultimo ateologo? Oppure c’è? È alfa e omega, come sostiene Vito Mancuso, l’ultimo teologo? All’Aquila, nei giorni del terremoto, padre Luciano Antonelli, frate minore cappuccino del convento Santa Chiara (gioiello del Quattrocento che andò in pezzi), corse con l’ampollina dell’olio degli infermi e, piangendo tra i corpicini dei bambini, li assolse dai peccati (di grazia, quali?) e tutti gli chiesero: «Dov’è Dio?». Il Padre, tra il dolore e lo sconcerto dei presenti, rispose: «Dio è qui, non se n’è andato».

Ma di quale Dio parliamo noi uomini? Del Dio buono dei miracoli o del Dio che non avrebbe l’onnipotenza per fermare il male? Se ferma il tumore di un nostro caro, Dio c’è. Se non ferma il terremoto, Dio non c’è. «Si Deus est unde malum?» (se c’è Dio, perché il male? Da dove viene il male?). Ferdinando Camon, nelle ultime righe di Conversazione con Primo Levi, chiede all’interlocutore: «Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?». Levi risponde: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». E sul manoscritto, a matita, aggiunge: «Non trovo una soluzione al dilemma, la cerco ma non la trovo».

E se Dio non avesse nulla a che vedere con le chiacchiere degli uomini? E se Dio non fosse ciò che abbiamo sempre ritenuto, a nostro uso e consumo? «E se un Dio non ci venisse a salvare?», chiedono Mauricio Y. Marassi e Jisò Forzani. L’uomo non sa niente di sé ma parla di Dio, (s)ragiona su Dio. Corre in soccorso del proprio simile, l’uomo, quando tutto è crollato, ma si ritrae quando è chiamato a tendere la mano in tempi di normalità. Per agire, per cooperare, ha bisogno di pianti disperati, l’uomo. È vuoto d’amore, l’uomo. È malato, l’uomo. È capace di tutto, l’uomo. Auschwitz l’ha fatto l’uomo (cioè noi, ciascuno di noi) nel pieno della propria libertà. È uno strano essere, l’uomo. Prima di chiederci se c’è Dio, dovremmo chiederci: e l’uomo? C’è l’uomo?

Per fortuna, ci sono i bambini. Non ancora uomini. Alla festa dell’Epifania, non più dentro la calza, ricevono regali. A Urbania e a Canicattì, a Vercelli e all’Aquila. Proprio in una tendopoli del capoluogo abruzzese, uno di loro, con la tecnica ad acquerello, dipinse una casa nera. Sopra, un volo d’uccelli, anch’essi neri. In alto, un bel sole che ride e, di lato, un albero in fiore. Non c’era tutto in quel disegno? Non c’erano la croce e la speranza, la caduta e la riscossa, la morte e la resurrezione, la notte e il giorno che viene? O servono ancora dibattiti, più o meno spettacolari? Roba da adulti. Da uomini. Chi è stato già mutato dalla società, esegue il solito spartito umano. Chiacchiera, si dimena, passa alla sala trucco, prima di ricevere l’applauso finale. Il bambino, invece, non ha alcuna distanza dalla realtà. Non sente il bisogno di piegarla al proprio interesse. Vi aderisce con il cuore. Il pensiero non l’ha ancora rovinato. La purezza gli consente di esprimere ciò che vede, ciò che sente, senza mistificazioni. Non deve accontentare nessuno, il bambino. Non deve piacere. Non deve prendere voti. Non dev’essere eletto. È libero, il bambino.

Si può essere bambino per sempre? Si può guardare la vita con gli occhi del bambino? Gli strumenti di noi adulti sono ormai logori. Le nostre parole non scaldano più. I nostri disegni non mirano alla verità, ma alla conquista di qualche ignobile obiettivo. Siamo competitivi, ambiziosi, avidi di potere. Scrive Emil Cioran: «L’apparizione dell’uomo sembra sia dovuta a un’esplosione di megalomania. L’ambizione è all’origine dei disastri. È questo che rende la gente infelice, ansiosa di superarsi. Tutto il male deriva da questa volontà di superamento, da questa infermità mentale, da questa onnipotenza».

E Jiddu Krishnamurti rincara: «È possibile vivere in questo mondo senza alcuna ambizione? Essere semplicemente quello che siete? Se cominciaste a capire quello che siete senza tentare di modificarlo, quello che siete subirebbe una trasformazione. Io penso che si possa vivere in questo mondo senza alcun bisogno di farsi conoscere, senza essere ambiziosi, senza rincorrere la notorietà, senza la durezza della crudeltà. Si può vivere davvero felicemente quando non viene data alcuna importanza all’ego, ed è questo che una corretta educazione dovrebbe insegnare. Tutto il mondo adora il successo. Vi raccontano come un povero ragazzo, studiando di notte, sia riuscito a diventare giudice; oppure vi dicono che ha cominciato vendendo giornali e alla fine è riuscito a diventare miliardario. Vi riempiono la testa con la glorificazione del successo; ma il raggiungimento di un grande successo implica anche uno straordinario dolore. Purtroppo però la maggior parte di noi è schiava del desiderio di avere successo e questo diventa per noi infinitamente più importante della comprensione del dolore e della sua risoluzione». Va scomposto, l’uomo. Destrutturato. Disincrostato. Denudato. Ricondotto alla condizione di fanciullo. Perché possa fare quel disegno per il solo gusto della verità. Senza trucchi e senza attendere alcun applauso. Bambino per sempre.