Marcello Veneziani e la copertina del libro

I Tramonti di Marcello Veneziani, sostanza di un pensiero vivente

Davide D'Alessandro

Analisi alta, densa, pregna di significati. Un mondo finisce e un altro non inizia      

Tramonti. Il tramonto della politica, Il tramonto dell’euro, Il tramonto del liberalismo occidentale. Quanti tramonti! Quante decadenze! Quanti soli che si spengono! Già nel lontano 1917 Eugenio Giovannetti scrive Il tramonto del liberalismo, ma è Osvald Spengler, dal 1918 al 1923, a pubblicare due volumi di importanza capitale: Il tramonto dell’occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale. Il filosofo tedesco analizza otto civiltà: babilonese, egiziana, indiana, cinese, ellenico-romana, araba, occidentale e centro-americana. Ogni civiltà come un organismo umano, con le tipiche fasi di infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Scrive Spengler: «Nell'antichità si aveva la retorica, nell'Occidente si ha il giornalismo e, invero, al servigio di quella cosa astratta che rappresenta la potenza della civilizzazione, il danaro». Tutto declina, tutto tramonta (neppure il giornalismo è messo tanto bene), tranne il denaro. Bisogna leggere Georg Simmel, che dal 1900 ricorda, con Filosofia del denaro, essere lo stesso un'istituzione pubblica senza fine, filosofia della forma che incide nella vita, la marchia e l’assorbe. E bisogna leggere Marcello Veneziani, che del tramonto fa un’analisi alta, densa, pregna di significati. Lo scrittore pugliese ironizza sulla sua incontinenza di penna, con due libri usciti in simultanea, ma chi ha da dire e scrivere è bene che dica e scriva, e chi ha da leggere è bene che legga. Io non mi stanco di leggerlo e di dirne e di scriverne. L’ho già fatto con Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti, lo faccio con Tramonti. Un mondo finisce e un altro non inizia.

Tramonti, edito da Giubilei Regnani, è libro intenso che sulla vita, sulla nostra vita, apre una meditazione profonda, non più rinviabile, non attraverso una dissertazione sociologica e fumosa ma (ri)scoprendo e (ri)esaltando la potenza del pensiero, potenza dedicata a ciò che perde peso, importanza e valore davanti ai nostri occhi smarriti e distratti. Tramonta il pensiero, tramonta la cristianità, tramonta la politica e non sorge alcunché. Come sospesi, assistiamo alla creazione di un vuoto che, al contrario di ogni vuoto, stenta a riempirsi. Resta tristemente vuoto. L’attuale, dice Roberto Calasso, è innominabile. La tecnica espansiva, arrogante, prepotente e onnipotente, promette nuovi paradisi in terra eppure non ce la fa a riempire quel vuoto. Non può. Non è nelle sue corde. E non è nelle corde dell’umano farsi riempire dalla tecnica.

L’uomo è fatto d’altro. Ha bisogno d’altro. Si lascia investire e travolgere, ammaliare e conquistare, poi scopre che la bolla è una panna montata ad arte da altri umani che inseguono il denaro, il denaro, il denaro e si riscopre vuoto. Solo e vuoto. Non è fatto, l’uomo, per vivere sospeso a qualche centinaia di metri da terra. L’uomo è fatto per avere i piedi poggiati sulla terra, l’uomo ha bisogno della terra. Ha bisogno, insiste Veneziani, di un ricordo e di una visione. Ha bisogno di un confine che lo ordini e non lo confonda. La confusione può generare mostri.

Veneziani scrive pagine illuminanti sull’odiernità, coniando una parola decisiva per rappresentare il vuoto di ora, di oggi, senza il pieno e il peso di ieri e di domani. Il pensiero si è fatto dito. Siamo diventati digitanti. Il pensiero è stato archiviato. Lo spettacolo desolante di una macchina che corre all’impazzata senza sapere dove, l’impoverimento di giacimenti culturali polverizzati, l’accettazione passiva dello sfarinamento e dello sconfinamento, l’inconsistenza di una politica sciagurata e insensata, la dismisura che abbatte il limite, la tradizione cancellata, fanno del tramonto l’ermeneutica di una fine ingloriosa.

Non è pessimismo, non è peggiorismo. È realismo. Rimettere al centro la cultura, le idee, la sacralità di storie, atti e faticosi cammini, la sostanza di un pensiero vivente e tornare a interrogarsi sulle grandi narrazioni sono obblighi morali, non stupide e irrilevanti nostalgie. Non è passato, è sempre il nostro “attuale”, il nostro “attuale presente”. La cultura è il lieto vincolo dell’umano, ciò che lo inquieta e lo rende nobile, grande.

Alla tecnica, all’onnipotenza della tecnica, Veneziani oppone non la sua eliminazione, impossibile e ridicola, ma una compensazione, un pensiero nuovo e diverso. Occorre bilanciare le miserie dell’economia e della tecnica, alimentando il desiderio di un’origine, di un inizio e ripartire con uno sguardo altro e rinnovato sul mondo. Per un nuovo mondo. Perché un nuovo mondo è sempre possibile. Con i piedi per terra. Con una terra che dura, che resiste, che sorregge. Che non tramonta.