Pescarenico, il paese di Renzo e Lucia, e l'Addio ai monti

Manzoni e l'esperienza amorosa

Davide D'Alessandro

La forza dell'Eros. Da Pahor a Renzo e Lucia, la metafora della vita e le ferite che ci rivelano a noi stessi

Chi ha letto Necropoli sa di Boris Pahor, l’ex deportato oggi giovanotto di centoquattro anni. In un’intervista a Paolo Rumiz racconta di un amore francese: «Si chiamava Madeleine. Per me che ero un naufrago dell’orrore fu la riscoperta della vita. Era la mia infermiera nei sanatori di Villiers sur Marne dove guarii dalla tbc. “Mon petit” mi chiamava. Fu un regalo magnifico». La forza dell’Eros. Il riemergere prepotente di un sentimento mai perduto. Pahor aggiunge: «Per un anno e mezzo avevo vissuto fra corpi distrutti. Cataste, montagne, treni interi di corpi distrutti e bruciati come foglie secche. Allora capii l’importanza e la benedizione di quella cosa che il ventesimo secolo degradava a un non-valore. Il corpo. Il più bel dono che abbiamo». Per sottrarci alla presa, per amare, per cercare il corpo dell’altro/a, per rinnovare il mistero di un incontro mai svelato. Corpo d’amore, di Norman O. Brown, spiega come, senza Eros, la civiltà umana sarebbe caduta prigioniera dell’istinto di morte. Prigioniera per sempre.

Nel tempo dell’amore in chat, dell’amore tre metri sopra o sotto il cielo, di rapporti freneticamente consumati e già finiti, dei lucchetti appesi ai ponti dei sospiri, che cosa può trasmetterci ancora il romanzo storico di Alessandro Manzoni, il libro che a scuola abbiamo amato e odiato, perché la lettura, quella vera, avviene fuori dalle mura della costrizione? È Umberto Eco con la Storia de I Promessi Sposi, edita dalla Holden di Baricco, a farmi riavvicinare alla pagina manzoniana: «Addio/ monti sorgenti dall’acque - ed elevati al cielo/ cime inuguali/ note a chi è cresciuto tra voi/ e impresse nella sua mente/ non meno che l’aspetto de’ suoi familiari/ torrenti - de’ quali si distingue lo scroscio/ come il suono delle voci domestiche/ ville sparse e biancheggianti sul pendìo/ come branchi di pecore pascenti/ addio!/ Quanto è tristo il passo di chi/ cresciuto tra voi/ se ne allontana!//».

La storia dei potenti e della povera gente si rinnova eternamente, le lacrime davanti alle fabbriche sono come le lacrime di Lucia, si avverte nell’aria il respiro pesante di un sopruso, di una prevaricazione. Chi decide se il matrimonio s’ha da fare o no? Il signorotto o l’amore? Ma questa terra è popolata anche di gente che fatica a essere coraggiosa, don Abbondio non è certo Giovanni Falcone e il cammino si rende impervio, accidentato, tortuoso. Ci sono i bravacci, gli Azzeccagarbugli, le monache di Monza, ma ci sono anche i Cristoforo e i Borromeo. Poi c’è l’Innominato, che vacilla, che viene roso da un tarlo che mai ti abbandona: la coscienza, quel fondo buio dentro ciascuno di noi che arde, se senti la colpa. E c’è la peste che arriva quando arriva e non sai chi la manda, se la manda per pulire o per punire o per entrambi i motivi. La Provvidenza gioca un ruolo fondamentale nel romanzo.

Eco, al termine delle sue pagine, si chiede: «Qual è il sugo di questa storia?». E spiega: «Io non credo che il signor Alessandro pensasse a una Provvidenza feroce, ma certo non era un ottimista. Alla Provvidenza lui credeva, ma sapeva che la vita è dura e crudele, e la Provvidenza può consolare o procurare grande affanno. E, siccome non può accontentare tutti, fa quello che fa secondo piani che noi non riusciremo mai a capire. Così, raccomandandoci di aver fiducia nella Provvidenza, in effetti il signor Alessandro si è limitato a incoraggiarci a voler bene agli indifesi, e a fare come i buoni che nella sua storia li hanno aiutati. Vedete, par che ci dica, anche se il mondo non è bello, e io non vi ho nascosto nessuna delle sue brutture, drammi, dolore e morte, se la gente riesce ad avere un po’ di compassione dei propri simili, questo mondo apparirà un pochino, anche se solo un pochino, meno brutto».

Ma a renderlo ancor meno brutto è la forza dell’amore, l’amore di Renzo e Lucia. Il primo non insegue altra meta; la seconda rinuncia, con il voto, per ritrovare la libertà che le è stata negata ma, quando conosce la possibilità di scioglierlo, di renderlo nullo, non pensa che a Renzo, a unirsi a lui per sempre. Quanto si è scritto sull’amore e quanto poco se n’è capito! Un enigma avvolto in un mistero, disse Winston Churchill del Cremlino. Eppure, non rinunciamo. Vogliamo capire, scoprire, amare.

Aldo Carotenuto, che con l’esperienza amorosa ha inciso la sua vita e il suo lavoro, il suo lavoro di psicoanalista inciso dentro la vita, si è avvicinato come pochi altri a questo mistero impenetrabile, a questa luce che ti chiama se ti allontani e ti acceca se ti avvicini: «Il nostro sguardo non può che abbracciare l’intero orizzonte esistenziale dell’uomo, dalle sue scaturigini fino ai futuri, sconosciuti suoi compimenti; nel momento in cui ci accingiamo ad esporre le nostre riflessioni sulla passione amorosa, ci accorgiamo che in realtà riflettere sull’esperienza amorosa è meditare sul senso stesso della vita, sugli abissi di conoscenza che si aprono quando pronunciamo parole come solitudine, nostalgia, sofferenza o speranza. Significa guardare a quella tensione suprema tra un essere umano e l’altro che in realtà attraversa tutta la vita, catturandola, modellandola, conferendo slancio e passione al nostro desiderio di completezza, di perfezione, e rivelando significati imprevisti alla nostra paura della morte. L’esperienza amorosa è la metafora stessa della vita, e si incide nella nostra anima e nei nostri corpi con ferite che ci rivelano a noi stessi, rivelandoci contemporaneamente il mondo attraverso l’essere amato, e l’amato attraverso il mondo, divenuto improvvisamente comprensibile. Infatti, come si esprime Georges Bataille, per colui che ama, l’essere amato è la trasparenza del mondo. Bisogna aver fatto l’esperienza di questo fortissimo sentimento per comprendere pienamente il significato di queste parole: la passione amorosa lacera la nostra primitiva visione del mondo, e così come ci espone alla nudità, mettendo a nudo le nostre ferite segrete e portando alla luce i più reconditi sogni, altrettanto “follemente” scopre i velami che nascondono il mondo e nullifica la necessità illusoria delle apparenze, per farci scoprire che “il sogno è ormai la profondità della vita, come la vita è la profondità del sogno”, come scrisse il poeta Joe Bousquet».

Dentro quella profondità siamo chiamati a scavare e sostare, a cogliere il frutto dolce amaro dell’esistenza, a dare senso alla vita priva di senso, sposi promessi alla sua realizzazione, a una compiutezza che mai si compirà.