Dino Buzzati

Tutti i reggimenti partono all'alba, parola di Dino Buzzati

Davide D'Alessandro

Ritratto di un uomo nato per scrivere, vissuto per scrivere, angosciato da un chiodo fisso: la morte. Fine o inizio?

Leggo e rileggo Dino Buzzati, il “doverista” Buzzati. Così Gaetano Afeltra chiamava l’autore di Il deserto dei Tartari ma, di più, di Un amore ma, di più, di splendidi racconti e insuperabili articoli. Dissi ad Afeltra, nel suo studio di Piazza Cavour, nella Milano da bere e da godere, che il suo Corriere primo amore contribuì ad alimentare la mia passione per il giornalismo. Lui prese il libro, me lo dedicò e chiese: «Quali sono le pagine più belle?». Risposi senza esitazione: «Quelle su Buzzati». Afeltra, gli occhi lucidi, sospirò: «Quanto era bravo, Dino! Dettò a braccio. Fu una delle mie notti più intense, certo la più commovente».

Ad Albenga una motobarca con ottantadue piccoli ospiti di una colonia milanese era colata a picco a poca distanza dalla riva e quarantatré bambini erano annegati insieme con le tre maestre. Afeltra seppe a mezzanotte dal giornale che era stato mandato Samarelli. Non convinto, disse a Buzzati: «Sbrigati, Dino, devi partire per Albenga». Lui lo supplicò per non andare. Afeltra replicò: «Non fare storie. Questo è un servizio per te. Non puoi sottrarti». E il “doverista” Buzzati andò. Afeltra, nel libro, è categorico: «L’episodio di Buzzati ad Albenga appartiene alla storia e alla gloria del giornalismo». Se avete passione per la scrittura, se amate la scrittura, se adorate costruire grattacieli di carta con straordinarie parole, se sognate ancora campi baciati dal sole, leggete e rileggete Buzzati. Il deserto dei Tartari è il suo libro più famoso, con Sessanta racconti vinse il Premio Strega nel 1958, Bàrnabo delle montagne è tra i preferiti da Vittorio Marchis, ma Un amore è un incanto. Un amore è il mio amore.

Ferdinando Castelli indaga a fondo sui libri di Buzzati e conferma che, in essi, «il tema della morte, oltre che ricorrente, è ossessivo, quasi un ritornello che scandisce la sua opera, ora in ritmi beffardi e desolati, ora in note aperte a un’ipotesi di speranza ultraterrena. Lo scrittore la scorge dappertutto, accovacciata negli angoli più impensati, gli occhi fissi sui mortali, protesa a ghermirli, incurante di tutto (…). Un interrogativo assilla Buzzati: la morte è una fine o un inizio? Un uscio che immette in un altro mondo o che sconfina nel nulla? La realizzazione delle nostre speranze o il loro naufragio? Talvolta gli appare come la porta del nulla, talaltra come la rivelazione, sia pure opaca e incerta, di un altro mondo».

Adesso càpita che stia scrivendo un lungo saggio sulla “fatal quïete”, che esca un attimo a prendere i giornali e che l’edicolante m’inviti a comprare un libretto rimasto da tempo sullo scaffale. «Costa soltanto cinquanta centesimi», mi rassicura porgendomelo e aggiunge: «Il reggimento parte all’alba. È di un certo Buzzati…». Già, di un certo Buzzati, rispondo sorridendo. Pago e saluto. Tutti i reggimenti partono all’alba. Il mio, il tuo, il suo. Ma non lo sappiamo. O meglio, lo sappiamo ma non vogliamo saperlo. A partire sono sempre gli altri. Quanti ne abbiamo visti partire! A tutte le età. Uomini e donne, anziani e bambini, gente malata e in ottima salute, ricchi e poveri. Quell’ordine di chiamata, scrive un certo Buzzati, non ammette disertori. Anche il suo reggimento partì all’alba. Era il 1972.

Sono passati quarantacinque anni da quella partenza, ma la sua scrittura resta, potentemente resta. L’articolo, citato da Afeltra, sulla partenza di un …reggimento di quarantatré bambini, finiti in acqua a causa di un incidente, lo ricordo a memoria: «I quarantatré bambini dormono distesi, fianco a fianco, assolutamente inverosimili. È un basso largo padiglione con scritto sulla facciata “Croce Bianca-Ambulatorio”. Fuori c’è l’allegra piazza di Albenga, con le palme, le panchine, i camion che passano inconsapevoli rombando. Appena si entra, viene meno il fiato. Ci si aspetta uno spettacolo orrendo ed è invece una cosa incredibilmente gentile, e per questo la morte è più atroce…».

Sulla partenza dei reggimenti hanno scritto migliaia di libri, forse anch’io ne scriverò, ma sono stati tutti cestinati. Anche i miei lo saranno. Le pagine di un certo Buzzati, no. Perché lui ha saputo essere intenso e sobrio, profondo e leggero, distante e vicino, senza mai esagerare. Càpita che un giorno qualcuno decida di toccarti la spalla per avvisarti che all’indomani, all’alba, partirà il tuo reggimento. Tu magari stai parlando, stai chiudendo un affare, progettando un libro, inseguendo un sogno, ma c’è chi ti tocca la spalla. Devi tornare a casa, preparare la valigia (che non ti servirà), metterci poche cose (che non ti serviranno) e dormire, se ti riesce di dormire. Alle sei si parte.

In tanti hanno provato a spiegarla, quella partenza, il più delle volte inaspettata, improvvisa, ma nessuno c’è riuscito pienamente. Chi l’ha fuggita, chi esorcizzata, chi allontanata. C’è anche chi ha scritto un libro per dire, dopo centinaia di pagine, che su quella partenza non c’era niente da dire. C’è chi ha scritto che in realtà si parte, ma si torna, solo un tantino diversi da prima. C’è chi ha scritto che si torna, ma non qui, bensì in altro luogo. C’è chi ha scritto che non bisogna aver paura, che bisogna accettarla serenamente, perché così è la vita. C’è chi ha scritto che la vita, senza quella partenza, non sarebbe vita. C’è chi ha scritto che quando ci siamo noi, non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo noi, quindi è inutile preoccuparsi. Soltanto un certo Buzzati ha scritto che si parte e basta. Credo sia la sola verità. O no?