Ansa

I rivali del Golfo

Gli attacchi in Yemen, il rapporto con Israele, il Somaliland e Gaza. Cosa succede fra Riad ed Emirati

Sharon Nizza

Il bombardamento saudita riguarda la più acuta rivalità tra le due monarchie del Golfo, quella per lo sbocco commerciale strategico sul Mar Rosso, già destabilizzato dagli Houti. "È molto probabile che saranno gli americani a mediare ora", dice Guzansky, capo del programma di ricerca per il centro studi israeliano Inss

Gerusalemme. Il bombardamento saudita avvenuto ieri al porto di Mukalla, nel sud dello Yemen, contro un carico di armi proveniente dal porto emiratino di Fujaira, rappresenta il picco di uno scontro profondo tra le due monarchie del Golfo, in forte competizione su un ampio spettro di questioni economiche e politiche regionali. L’attacco di ieri riguarda la più acuta delle rivalità, quella per lo sbocco commerciale strategico sul Mar Rosso, già lungamente destabilizzato dalla minaccia degli Houti. Abu Dhabi ha affermato che il carico era destinato alle forze emiratine ancora parte della coalizione anti Houti, e non a gruppi ribelli. E ha sottolineato che il momento richiederebbe “i massimi livelli di coordinamento, moderazione e saggezza, date le minacce alla sicurezza poste dai gruppi terroristici, tra cui Al Qaeda, gli Houti e i Fratelli Musulmani”, quasi a voler ricordare ai sauditi chi sono i veri nemici comuni dei due paesi.

 

La diatriba sullo Yemen riguarda il sostegno da parte degli Emirati del Consiglio di Transizione del Sud (Cts), che ambisce a ripristinare la divisione dello Yemen vigente fino alla fine degli anni ’90 e guidato da Aidarus al Zubaidi, che però è al contempo anche il vicepresidente del governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale. In una recente intervista ad Al Hurra, emittente americana in arabo, Zubaidi ha parlato di “soluzione a due stati per lo Yemen”, non escludendo la prospettiva di aggregarsi agli Accordi di Abramo. Riad dal canto suo, si oppone alla frammentazione dello Yemen e ieri ha apertamente bollato il sostegno emiratino al Cts come di una “linea rossa per la propria sicurezza nazionale”. Gli Emirati hanno annunciato la fine della loro cooperazione, già piuttosto scarna dal 2019, con la coalizione per lo Yemen guidata dai sauditi.

 

Le divergenze tra Riad e Abu Dhabi sono tracciabili in diversi scenari mediorientali, ma mantengono sempre un bassissimo profilo. Non è da escludere che emergano ora in maniera così aperta proprio nel momento in cui i nemici congiunti tradizionali – Iran, Houti e Fratellanza Musulmana – sono temporaneamente assopiti dopo i colpi inflitti da Israele negli ultimi due anni. Pare che a dare il là all’escalation attuale sia stato un appello fatto da Mohammad bin Salman (Mbs) a Trump durante la visita alla Casa Bianca a novembre: l’erede al trono saudita avrebbe chiesto al presidente americano di aiutare a frenare il sostegno emiratino alla milizia Rsf in Sudan – gli eredi dei sanguinari Janjaweed – sostegno che Abu Dhabi nega di fornire. Inoltre, in questi giorni abbiamo assistito a un’altra mossa che evidenzia un distaccamento degli emiratini dal fronte arabo più ampio: Israele ha riconosciuto il Somaliland, regione secessionista nel nord della Somalia che si affaccia sul Golfo di Aden e strategica per il contenimento degli attacchi delle milizie proiraniane nello stretto di Bab el Mandeb. E’ qui che gli emiratini hanno da tempo forti interessi, con la costruzione del porto di Berbera da parte del colosso della logistica di Dubai DP World, in contrasto con la posizione ufficiale della Lega araba, fortemente sostenuta da Riad, contro ogni forma di secessionismo che mini l’integrità territoriale dei paesi musulmani.

 

“Sono in ballo interessi economici, ma anche giochi di potere e di prestigio tra i due paesi che esistono da sempre”, dice al Foglio Yoel Guzansky, capo del programma di ricerca sui paesi del Golfo per il centro studi israeliano Inss. “Sono oltre vent’anni che il Consiglio del Golfo discute la possibilità di creare una banca centrale. L’iniziativa non è mai uscita dallo stallo perché i sauditi e gli emiratini litigano su chi dovrebbe ospitare l’istituzione”. Molto riguarda anche la rivalità personale tra MbS e quello che un tempo era il suo mentore, l’emiratino Mohammed bin Zayed (MbZ), che il saudita ha per certi versi emulato con il programma accelerato di apertura al mondo occidentale. Oggi però Riad si pone come un centro estremamente competitivo per attrarre know-how e investimenti stranieri, giocando la carta ultimativa del prestigio: il paese leader del mondo musulmano, in quanto Custode di Mecca e Medina.

 

Un altro fronte delle divergenze riguarda direttamente Israele e il coinvolgimento nella stabilizzazione della tregua a Gaza. Gli Emirati sono molto presenti, con tanto di invio di personale alla base americana a Kiriat Gat che segue l’implementazione del piano dei venti punti di Trump. Inoltre, va ricordato, Abu Dhabi ospita da anni Mohammed Dahlan, leader dell’autoproclamata “ala riformista” del Fatah, che Abu Mazen cacciò dal partito nel 2011, e visto come possibile concorrente del novantenne presidente dell’Autorità palestinese. Riad invece insiste nel voler investire nelle riforme dell’Anp, favorendo una leadership allineata con il vecchio Olp, probabilmente nella figura di Hussein al-Sheikh. Nonostante la familiarità con le diatribe decennali tra i cugini del Golfo, Guzansky guarda con preoccupazione all’escalation attuale per i delicati equilibri mediorientali. “E’ molto probabile che saranno gli americani a mediare ora. Se riusciranno, Trump potrà dire di aver raggiunto un altro accordo di pace”.